Due nonesi nelle fogne di New York

L'avventura degli emigrati Lino e Mario, a costruire la metropolitana. Uno poi raggiunse l'Università in Canada, l'altro le foreste dell'Australia. Un racconto inedito, tramandato oralmente nei rientri in val di Non

Fonti scritte e testimonianze epistolari sull’emigrazione trentina ne sono state raccolte a volumi. Alla vigilia di questa Festa provinciale ci è stato messo a disposizione questo significativo racconto della nostra abbonata Maria Rosa Bertoldi, di origini nonese. Le è stato tramandato oralmente dai cugini emigrati nel secondo Dopoguerra oltreoceano.

Era l'alba. Un temporale aveva inquietato la notte e i prati erano intessuti dì un manto di goccioline trasparenti. Il silenzio era ovunque. Solo nel maso della Terza Sponda della val di Non si era accesa una luce. Intorno a un tavolo la famiglia indugiava, per l'ultima volta riunita. A terra due valigie legate con corde di cuoio. Nessuno aveva voglia di parlare. Quel giorno della primavera del 1951 uno dei quattro figli, Lino, partiva per la lontana America. Una zia emigrata da tanti anni lo avrebbe temporaneamente ospitato a New York.

Molti partivano in quegli anni del Dopoguerra a cercare lavoro. Lino era fortunato. Qualcuno lo attendeva nella grande città, mentre altri dovevano affrontare mille difficoltà per trovare occupazione e alloggio. I genitori del ragazzo erano oppressi dalla tristezza. Avevano dovuto rassegnarsi alla volontà del figlio, ma nel loro cuore c'era la paura di non rivederlo più.

Lino invece aveva già dei progetti per il maso e per la campagna. Sarebbe tornato dopo pochi anni e avrebbe comprato del terreno, sistemato il maso, la stalla si sarebbe riempita di mucche. Alla fine i genitori non avevano avuto la forza di opporsi e così Lino era partito da Mezzocorona con il treno delle 8.15 e a sera inoltrata era arrivato a Genova. Aveva preso alloggio per la notte in una locanda buia e sporca, insieme ad altri emigranti.

Qui Lino aveva stretto amicizia con un coetaneo, anch'egli contadino, e al momento dell'imbarco sulla grande nave si erano trovati nella stessa cabina. Era stato così più lieve affrontare l'interminabile vìaggio. Giocavano a carte e si raccontavano la vita. Si sentivano forti, confidavano di tornare in pochi anni nei loro paesi. Per ora si tenevano i pochi soldi in una piccola sacca legata alla vita, che Lino aveva levato solo alla vigilia dell'arrivo, per farsi una doccia prima di sbarcare.

Arrivato a terra, aveva trovato la zia ad attenderlo. L'amico, insieme agli altri emigranti, si era allontanato senza un cenno, e rapidamente era sparito, confuso tra la folla.

La vista di New York con i grattacieli e la Statua della libertà aveva fatto restare Lino incredulo e felice. Si sentiva eccitato e fatto nuovo. Ma la sera, mentre si spogliava per andare a letto, ebbe un'amara sorpresa: era stato derubato. Nella sacca, al posto dei soldi, solo dei foglietti di carta straccia. Mentre faceva la doccia il suo compagno di cabina gli aveva sottratto le poche, preziose banconote. Come gli era pesato quel tradimento, e poi l'umiliazione nel dover chiedere soldi agli zii appena arrivato!

Quella sera la grande città lo aveva scrutato fredda e ostile. Il giorno dopo aveva trovato subito lavoro e dopo un mese un piccolo alloggio a Brooklyn in una zona abitata esclusivamente da emigrati. La casa era malandata e la via sporca e rumorosa. La notte Lino ascoltava in silenzio il fischio lugubre delle navi che scaricavano ininterrottamente merci ed altri suoi poveri compagni di destino. Spesso il caldo era insostenibile e Lino dormiva sul ballatoio della scala antincendio, nella ricerca vana di refrigerio. Allora tornava con l’immaginazione al suo maso così fresco della Val di Non e all’erba che sembrava di velluto quando a piedi scalzi correva alla fontana. Ricordava l’odore dell’aria fresca dopo il temporale, quello dolce dei tigli fioriti e quello acre del mosto autunnale.

Era ben più grigio invece il ventre di quella grande città in cui aveva trovato lavoro. Si costruiva in quegli anni una nuova linea della metropolitana e la sua squadra lavorava a deviare il corso delle fogne per consentire il passaggio della linea ferroviaria. Lavoravano con tute impermeabili. Sopra le loro teste l'incessante fragore di macchine e di persone in movimento. Gli operai scavavano nuove condotte, e armavano le volte delle gallerie. Erano immersi nella fanghiglia maleodorante e nonostante dell'aria fosse forzatamente convogliata nei cunicoli da enormi ventole, il respiro era pesante, gli occhi bruciavano e quell'odore si attaccava alla pelle come una maledizione. Lavoravano tutti in rassegnato silenzio, e solo il rumore dei macchinari riecheggiava nelle volte brumose.

Passò così una decina d'anni, finché Lino decise di lasciare quella città che lo stava corrodendo dentro. Aveva ormai messo da parte un piccolo capitale, ma non sentiva più il desiderio di tornare a casa. E scelse il Canada, dove fece carriera in campo ingegneristico e universitario.

Da Toronto è poi tornato alcune volte in Trentino e in ogni occasione ci raccontava qualche tappa di quest'epopea, nella quale attribuiva un posto speciale alla figura di un altro suo amico d'avventura, Mario, pure noneso, conosciuto nei circoli di New York. Pure lui aveva poi lasciato l'America, cercando grandi spazi, di verde e di cielo, e aveva trovato fortuna in Australia, impegnato nelle foreste a tagliare il legname. Era un ambìente limpido e arioso e il profumo del bosco lo disintossicava lentamente dai miasmi di New York. Abitava in un villaggio di piccole casette prefabbricate, destinate agli operai. Mario scriveva meno a casa, pur inviando regolarmente dei soldi agli anziani genitori. In quel lungo periodo aveva continuato ad apprendere, con curiosità insaziabile, molte cose sulla natura di quei luoghi e suì bizzarri animali che vi s'incontravano. Durante il suo lavoro gli era capitato di vedere gli aborigeni, incontri silenziosi e fugaci.

I suoi compagni gli raccontavano delle brutte storie e lo avevano invitato a tenersi alla larga da quella enigmatica popolazione. Ma lui, quasi di nascosto, aveva cercato contatto con loro, vincendo progressivamente la loro diffidenza e imparando lentamente a esprimersi nella loro lingua cadenzata di suoni antichissimi, gutturali e stranianti. Si era sentito subito a casa nel popolo dei nativi e aveva cominciato una vita nuova e inattesa.

Maria Rosa Bertoldi

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