I trentini che hanno fatto la Svizzera

Tra i cinque milioni di emigrati italiani una significativa presenza: dove hanno lavorato e perché sono ricordati con riconoscenza

Una storia collettiva, quella dell’emigrazione italiana verso la Svizzera, che nel Novecento ha coinvolto circa cinque milioni di nostri connazionali, di cui tantissimi anche trentini. Una storia importante, da non dimenticare, per riuscire a riflettere con cognizione di causa sulle migrazioni del presente. Forse anche per capire che chi lascia il proprio Paese in cerca di fortuna è prima di tutto una persona e andare via dalla propria casa e dai propri affetti, non è mai facile. Non lo è oggi per le migliaia di giovani che dall’Italia continuano ad andarsene, mentre dal Mondo impoverito arrivano profughi in fuga da guerre e povertà e non lo era allora, nel secondo dopoguerra, quando la Svizzera rappresentava la meta principale degli emigranti italiani alla ricerca di lavoro e di un futuro migliore.

Parte da questo presupposto l’analisi di Toni Ricciardi, storico delle migrazioni presso l’Università di Ginevra, che sabato scorso è stato ospite dell’associazione “Trentini nel Mondo” per presentare il suo ultimo saggio, dal titolo “Breve storia dell’emigrazione italiana in Svizzera” (2018, Donzelli Editore).

Propone un’analisi aggiornata e attualissima di questo flusso migratorio, attivo ininterrottamente dalla seconda metà dell’Ottocento fino agli anni ’70 del secolo scorso.

“Senza il lavoro, il sacrificio ed il contributo degli italiani la Svizzera non sarebbe mai potuta diventare quello che è ora”, ha detto Ricciardi davanti ad un vivace pubblico, composto in larga parte di trentini rientrati nella terra d’origine dopo aver trascorso nella Confederazione elvetica gli anni migliori della propria vita. “Neppure i più famosi stereotipi svizzeri, come la cioccolata e gli orologi, oggi sarebbero tali senza i tanti lavoratori italiani che nelle fabbriche e negli stabilimenti hanno fornito un fondamentale apporto alla loro produzione. In pochi anni la manodopera italiana diventò un fattore indispensabile per la crescita e l’espansione dell’economia elvetica, e fu soprattutto per questo motivo che il referendum contro l’immigrazione del ’70 non passò”, ha ricordato lo storico, sottolineando la centralità del lavoro anche nelle vite e nelle scelte dei nostri emigrati.

Sono stati lavoratori apprezzati e ricercati gli italiani in Svizzera, impiegati soprattutto nell’agricoltura, nell’edilizia e poi nel settore alberghiero e nella ristorazione. E se da un lato il lavoro ha permesso negli anni l’invio in patria delle rimesse che, unite a quelle degli emigranti in tutto il mondo, furono alla base del boom economico del nostro Paese, dall’altro, con l’altissima percentuale di morti bianche dovute agli alti ritmi di produttività e allo scarso rispetto delle norme di sicurezza, fu causa di troppi lutti e tragedie storiche, come la catastrofe di Mattmark, la valanga che il 30 agosto 1965 investì il cantiere per la costruzione di una diga, travolgendo 88 operai, di cui 56 italiani.

L’integrazione non fu mai semplice, le limitazioni imposte dal governo svizzero e la stagionalità favorirono l’aumento dei clandestini, tra cui migliaia di bambini a cui era negato il ricongiungimento famigliare con i genitori emigrati: “Ma nessuno nasce clandestino, lo si diventa per via delle leggi” puntualizza Ricciardi, che, con una nota di colore vede nelle eccellenze italiane come la cucina e lo sport alcuni dei fattori che hanno portato al cambiamento della percezione degli italiani in Svizzera: “Il termine Cinq, prima usato in maniera dispregiativa per indicare gli italiani, ora è un marchio di qualità tanto da essere diventato il nome di una pasteria di Zurigo. Ma il vero spartiacque è stata la vittoria del Mondiale di calcio nel 1982: per la prima volta gli italiani in Svizzera festeggiarono e, dal tetto del Mondo, dimostrarono di non essere solamente forza lavoro”.

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