La guerra degli “ultimi”

Domenica 24 marzo a Castellano, Quinto Antonelli e Diego Leoni hanno raccontato la storia dei 50 mila prigionieri serbi e russi portati in Trentino e in Sudtirolo durante il primo conflitto. Sottolineato che le ricerche sono ancora scarse, i documenti lacunosi e frammentari

Ultimi. Dopo i soldati al fronte e i civili nelle retrovie o in esilio, in un’ “ipotetica scala” gerarchica e sociale. Ma ultimi ad essere presi in considerazione anche dalla ricerca storiografica che per decenni li ha ignorati.

Sono i prigionieri di guerra. In questo caso i russi e i serbi che, nel corso della Prima guerra mondiale, quando il territorio regionale faceva parte dell’Impero austro-ungarico, vennero portati in Trentino e in Sudtirolo per lavorare alla realizzazione di strade e ferrovie ma anche nei campi e pure come “animali da soma”, addetti al trasporto di materiali per la prima linea montana.

Si stima che a sud del Brennero ce ne fossero, tra russi e serbi, intorno ai 50 mila, almeno in alcuni momenti tra il 1914 e il 1918 di cui la maggioranza, 30-40 mila, in Trentino. Servivano, questi ultimi, a ridosso del fronte quando il Regno d’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria nel ’15. Una guerra totale, la Prima. Si calcola che in quegli anni ci fossero in Europa dai 7 ai 9 milioni di prigionieri e ben 17milioni di profughi, di civili sballottati da una parte all’altra del continente.

E viene da pensare, anzi, da sorridere amaramente all’oggi, ad un’Europa che, in stato di pace, va in fibrillazione per poche migliaia di disperati che attraversano il Mediterraneo. In Trentino la storiografia più avveduta, un fiore all’occhiello a livello nazionale, quella cresciuta con la rivista “Materiali di lavoro” fin dagli anni Ottanta, ora ha iniziato a occuparsi dei prigionieri, degli ultimi di casa nostra. Dopo che al centro degli studi sono stati, per anni, i soldati trentini mandati sul fronte orientale e mai tornati o prigionieri nelle infinite steppe russe e i civili spediti in Boema, Moravia, nell’Alta Austria.

Una controstoria su basi solidissime, documenti alla mano, i diari, le memorie, rispetto a quella andata per la maggiore dal primo dopoguerra agli anni Settanta: nazionalistica e tutta dalla parte degli “irredenti”, a rimarcare l’italianità di questa terra. Non che quella generazione di storici, da Fabrizio Rasera a Quinto Antonelli, da Diego Leoni a Camillo Zadra, non se ne sia occupata ma ha completato e arricchito il quadro che, come ogni Storia che si rispetti e sia autorevole, è complesso e, soprattutto, non privilegia il senso identitario e men che meno le piccole patrie.

Domenica 24 marzo a Castellano, frazione di Villa Lagarina, Antonelli e Leoni hanno tracciato un quadro, delineato possibili piste di ricerca, pur in presenza, almeno per il momento, di poche fonti. Un input venuto dall’Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa, il network giornalistico (che fa parte del Centro per la cooperazione internazionale di Trento) sulla scorta di un progetto europeo. Gli storici hanno sottolineato che le ricerche sono ancora scarse, i documenti lacunosi e frammentari. Però, già adesso qualcosa si può mettere in luce.

Che quei serbi e quei russi erano trattati come schiavi, malnutriti, malvestiti e poco assistiti. Con rapporti ambivalenti con le popolazioni locali. “Nei loro confronti – ha detto Leoni – c’era repulsione e diffidenza ma anche, in alcuni casi, attrazione. In qualche maniera suscitavano pietà, per le donne potevano rappresentare lo specchio dei propri mariti, figli e fratelli prigionieri in Russia”.

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