Palestina: alt ad un passo dal baratro

Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu points at a map of the Jordan Valley as he gives a statement in Ramat Gan, near the Israeli coastal city of Tel Aviv, on September 10, 2019. – Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu issued a deeply controversial pledge on September 10 to annex the Jordan Valley in the occupied West Bank if re-elected in September 17 polls. He also reiterated his intention to annex Israeli settlements throughout the West Bank if re-elected, though in coordination with US President Donald Trump, whose long-awaited peace plan is expected to be unveiled sometime after the vote. (Photo by Menahem KAHANA / AFP)

Ad un passo dal baratro ci si è fermati. L’annessione il primo luglio dei territori della Cisgiordania occupati nel corso degli anni dai coloni e dai soldati israeliani non è stata ufficialmente dichiarata.

Era quanto prevedeva il “Piano di Pace Trump” che attribuiva il 30% della West Bank (così è conosciuta la Cisgiordania) ad Israele a fronte del riconoscimento di un secondo stato (smilitarizzato e frammentato), quello palestinese, e di un enorme piano di finanziamenti di origine sconosciuta per la popolazione palestinese.

Davvero uno strano progetto quello inventato da Jared Kushner, il genero di Trump, che sottrae territorio ai legittimi proprietari, i palestinesi, per poi attribuirgli la sovranità di uno stato depauperato del 30% dei propri possedimenti.

Dopo la contestata decisione del presidente americano di trasferire la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme e dopo avere tagliato tutti gli aiuti per i palestinesi di Gaza, questa ulteriore provocazione non ci voleva. Lo stesso governo israeliano presieduto ancora una volta da Benjamin Netanyahu, in “compartecipazione” con il suo concorrente Benny Gantz che gli succederà a metà legislatura, ha fatto finta di nulla e per ora ha lasciato passare la data dell’annessione senza fiatare. Certo la minaccia non scompare ed anzi viene usata come una specie di spada di Damocle sulla testa sia dei palestinesi moderati, l’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen, che degli estremisti di Hamas nella striscia di Gaza. Sembra incredibile che l’amministrazione americana, per bocca del suo ambasciatore a Bruxelles, Ronald Gidwitz, arrivi a sostenere che l’annessione proposta “viene vista come l’avvio di un negoziato e un tentativo per iniziare il dialogo”.

Ad essa risponde l’Alto Rappresentante UE, Josep Borrell sottolineando il fatto che questa mossa “mette definitivamente a rischio l’unica realistica soluzione dei due stati, atta a risolvere il conflitto”. In effetti fin dal suo lancio, a gennaio di quest’anno, il piano americano è stato visto in tutta la sua drammatica pericolosità. Nessuno dei Paesi arabi, neppure quelli più moderati, come l’Arabia Saudita e la Giordania, lo ha sostenuto. Esso è stato condannato anche in sede Onu e respinto dall’UE. Tutti si rendono conto della sua profonda iniquità e del suo radicale sbilanciamento a favore di Israele. Non è certo il fiume di denaro promesso a tacitare e sanare le aspettative palestinesi che nella sola Cisgiordania, oggi in gioco, arrivano a 2,7 milioni di abitanti a fronte di circa 450mila coloni israeliani penetrati irregolarmente nel loro territorio. A questi numeri si devono poi aggiungere sia i palestinesi della enclave di Gaza sia quelli che da più di settant’anni vivono come rifugiati in Libano, Giordania e Siria raggiungendo secondo l’Onu la consistente cifra di 5 milioni.

Se già in Cisgiordania si riduce drasticamente il territorio a disposizione, in quale “stato” faranno mai ritorno quei milioni di disperati? Il processo di pacificazione dei due popoli iniziato, dopo anni di conflitti, nel 1993 con gli accordi di Oslo non è mai riuscito ad imboccare la strada giusta. Da allora tutti i presidenti americani si sono inventati nuovi piani o hanno cercato di favorire il mantenimento di una parvenza di negoziato fra le due parti.

Ma ogni volta si è ritornati alla casella di partenza.

Questa volta, addirittura, si rischia di fare un salto all’indietro riaccendendo un odio e un conflitto che non si è mai completamente spento. La realtà è che non si tratta solo di una disputa fra due parti, quella israeliana e quella palestinese, ma della “madre di tutte le battaglie” nel Medio Oriente. Essa è infatti utilizzata dai principali Paesi della regione per giustificare guerre, volontà di dominio, estremismi e terrorismi di tutti i tipi. Non vi è dubbio ad esempio che oggi, in caso di annessione, si offrirebbe su un piatto d’argento l’occasione all’Iran di riprendere la lotta per la supremazia regionale, vantando la sua ideologica condanna nei confronti di Israele. Stesso discorso vale per l’Isis o per Al Qaeda, oggi dormienti, ma sempre pronti a riprendere la lotta conto Israele e l’Occidente.

Forse la vera debolezza di tutta questa lunga vicenda israelo-palestinese è stato il monopolio dei negoziati nelle mani degli Stati Uniti, troppo di parte per essere credibili. Lo stesso premier palestinese, Mohamed Shtayyeh, lo ha riconosciuto lanciando l’idea di affidare ad un quartetto, Usa, Russia, Onu e UE, il compito di mettere intorno ad un tavolo le parti in conflitto. In altre parole, cercare di rendere multilaterale l’intero negoziato. Più facile a dirsi che a farsi. Con il rischio sempre presente di una mossa unilaterale di Israele e degli Usa alle prese con i propri giochi politici interni.

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