Sudan senza pace

“Il Consiglio militare deve pensare bene a come relazionarsi alla popolazione sudanese e trovare un modo per trattare con la gente senza versare altro sangue”. Lo ha detto all’agenzia Sir mons. Michael Didi Adgum Mangoria, arcivescovo di Khartoum, descrivendo un clima di tensione ancora alto in città. La Chiesa cattolica sta preparando, insieme ai leader delle Chiese cristiane del Sudan, una lettera da indirizzare al Consiglio militare e a chi rappresenta le proteste di piazza per chiedere la pace. Dal 3 giugno a Khartoum il bilancio degli scontri tra manifestanti e forze paramilitari è di un centinaio di morti (secondo fonti ospedaliere: per il ministero della salute invece sono 46). I militari avevano prima appoggiato le rivendicazioni della popolazione, deponendo il presidente Omar Al Bashir, dopo trent’anni di dittatura. Il Consiglio militare ha invece cancellato tutti gli accordi con le organizzazioni che guidano la protesta e annunciato elezioni tra 9 mesi. Ma la piazza non è d’accordo e continua a manifestare.

Da Khartoum la testimonianza di padre Norberto Stonfer, missionario comboniano originario di Ville di Giovo.

Khartoum, 5 giugno – Lunedì 3 giugno mattina, nel giorno della memoria dei Martiri d’Uganda, siamo stati svegliati da colpi di arma da fuoco pesanti seguiti dal crepitio di armi leggere; tutto questo qui a neanche un chilometro dal Comboni College. Questa volta non si trattava di spari in aria ma diretti ai dimostranti di ogni età accampati davanti al Ministero della difesa. Un pensiero subito ci assale: la primavera sudanese sta per finire soffocata nel sangue!

L’attacco, ben pianificato, è scattato alle cinque del mattino nel giorno detto “waqfa” l’ultimo del mese sacro di Ramadan. Hanno aspettato la vigilia dei giorni di festa per far piazza pulita del sit-in, simbolo della protesta, ormai conosciuto in tutto il mondo, dove, dal 6 aprile si erano accampati i rappresentanti della “Sudanese Professionals’ Association” (SPA) ed altri per chiedere un governo formato da civili.

Per quanto riguarda le vittime, all'inizio si è parlato di nove, poi di tredici, a fine giornata i morti erano trentasette. Ora, secondo l’associazione dei dottori, sono almeno un centinaio. I feriti non si contano, accolti come al solito da ospedali privati (Royal Care, Fedail, East Blue Nile) non lontani dalla scena del sit-in.

Tutto è stato perpetrato da questo consiglio militare di transizione (TMC) ed eseguito da queste milizie di Janjawit denominate Rapid Support Forces al soldo dell’uomo forte di questo nuovo regime, Muhammad Hamdan Dalgo soprannominato Hemedti, un commerciante di cammelli, di origine Chadiana già al servizio di Al Bashir che per anni ha seminato il terrore in Darfur. La dichiarazione dei militari: “Abbiamo liberato la piazza dai criminali, ora siamo pronti a riprendere le trattative” (sic!). L’associazione dei professionisti che finora ha guidato la protesta ha fatto sapere che non prenderà parte ai negoziati, ossia non cadrà nella trappola dei militari. Ha già proclamato la disobbedienza civile ad oltranza fino alla caduta di questa consiglio militare.

Qui in Sudan la fine del mese del Ramadan è stata spostata di un giorno per avere il tempo di portare a termine questa operazione di “pulizia”. Nessuno ha voglia di festeggiare, anzi, ne sono completamente impediti.

È forse finito questo sogno, iniziato prima di Natale, quando uno studente di Atbara, città a trecento km a nord di Khartoum, ha cominciato a imprecare per l’aumento del prezzo del pane, improvvisamente triplicato? Una protesta che, da “assalto al forno” (di manzoniana memoria), si è trasformata in “assalto”, in maniera pacifica, al palazzo presidenziale al grido, rivolto al presidente, “scendi giù e basta“.

Le manifestazioni sempre dirette al palazzo sono andate avanti fino al 6 aprile, giorno della svolta quando i dimostranti hanno preso di mira non più il palazzo, ma il quartier generale delle forze armate, ossia il Ministero della Difesa nell’intento di capire da che parte stava l’esercito, di solito solidale con il popolo.

Come sappiamo, i generali sono scesi in campo l’11 aprile destituendo il Presidente El-Bashir alla soglia di trent’anni di potere assoluto.

Questi due mesi sono stati impiegati in estenuanti trattative tra il Consiglio militare di transizione (TMC) e l’associazione dei professionisti più conosciuta come “Forze della liberta e del cambiamento” nel tentativo di arrivare alla costituzione di un Consiglio sovrano con il compito specifico di guidare il paese ad elezioni democratiche.

Due erano i punti di controversia: la composizione di questo consiglio e la sua durata. Per la durata si era raggiunto un accordo: tre anni di transizione chiesti dai civili per avere il tempo di rimuovere l’Ancien Regime, mentre per la composizione, nessun accordo. Per i militari si doveva garantire una maggioranza dei militari e per i civili, una maggioranza di civili.

Due fatti importanti hanno fatto precipitare le cose. Primo, le visite del generale Al Borhan, capo del TMC e del suo vice a tre stati arabi: Egitto, Arabia Saudita e Emirati. Se prima della visita erano incerti sul come proseguire, dopo la visita sono tornati con un piano ben chiaro: farla finita con la protesta. Da ricordare che Arabia Saudita ed Emirati avevano già versato centinaia di milioni di dollari nella Banca centrale del Sudan. Bontà loro!

Il secondo motivo, ciò che ha fornito la ragione fondamentale a questo “nuovo colpo di stato”, come l'ha definito l’opposizione, è stata la presenza, accanto al sit-in, di un gruppo “spurio” denominato Columbia, qui sinonimo di droga, formato essenzialmente da giovani che si erano sostituiti alle forze dell’ordine bloccando il ponte che collega Khartoum a Khartoum Nord e anche il Lungo Nilo, arteria essenziale per il traffico in Khartoum.

Cosa succederà nel prossimo futuro è difficile da prevedere, in quanto si susseguono dichiarazioni contradittorie da parte del Consiglio di transizione; ieri: “non più negoziati”; oggi (5 giugno): “negoziati senza restrizione”.

In questi tre giorni noi siamo rimasti tutti in casa, spettatori di una città fantasma, con i negozi chiusi, attraversata dalle Toyota del RSF, coadiuvati da miliziani, a piedi, armati di bastoni pronti a picchiare chiunque indugi per strada. Ne ha fatte le spese anche la nostra collaboratrice domestica, fermata dai miliziani, perquisita e vilipesa perché cristiana. E’ riuscita ad evitare il peggio per il suo grande coraggio. Commento della nostra signora: questa gentaglia non ha religione, sono senza scrupoli.

Le dichiarazioni di condanna sono giunte da tutto il mondo: dal Segretario Generale dell’ONU, dagli Stati Uniti, dall’Unione Africana. Germania ed Inghilterra hanno chiesto la riunione urgente del Consiglio di Sicurezza, il quale purtroppo non è giunto ad una dichiarazione unanime per il veto di Cina e Russia, i due paesi che hanno più interessi economici in questo Paese, dopo i Paesi arabi.

Durante questi due mesi, il sit-in si era trasformato in una passerella dove sono apparsi ambasciatori, diplomatici e personaggi dello spettacolo. Dopo Pasqua ha avuto luogo anche una preghiera ecumenica. Studenti e studentesse delle nostre scuole Comboni si erano aggiunti alla protesta.

Ora qui a Khartoum chi ha avuto il coraggio di metterci la faccia è stato l’Ambasciatore inglese Irfan Siddiq che ha condannato senza mezzi termini l’atrocità dell’attacco di lunedi’. A questo possiamo aggiungere cio’ che ha detto l’ex ambasciatrice inglese in Sudan, la Sig.ra Roselind Marsden alla TV Al Jazira: “Speriamo che tutte queste dichiarazioni di denuncia del TMC siano seguite da una azione concreta”.

In pratica cosa è avvenuto in questi mesi qui in Sudan? E’ nato un movimento spontaneo, non violento assetato di giustizia, democrazia e libertà. Per quasi quattro mesi ha fatto campagna contro il Pres. Omar El-Bashir. Una vera “primavera araba” fatta di manifestazioni dove si è dato sfogo alle aspirazioni fondamentali di ogni cittadino: libertà di espressione, libertà di associazione e libertà di movimento, multi etnicità, libertà di religione. Principi che nelle scuole Comboni si insegnano da quasi un secolo. Le donne e le ragazze sudanesi hanno dato prova di grande maturità e di un coraggio eccezionale.

Per trent’anni questo paese è stato oppresso, controllato dalle varie securities, tutte impegnate a mantenere in piedi il regime. I generali hanno approfittato di tutto questo per estromettere Al-Bashir. Ora che lo hanno tolto di mezzo, vogliono, coi suggerimenti ricevuti dagli stati sopramenzionati, fare a meno della protesta, addomesticarla con la promessa di elezioni libere, per continuare come prima. Tutto l’apparato dello stato è rimasto al suo posto; insomma, secondo il vecchio adagio si tratta di: “Cambiare tutto perché tutto rimanga come prima”. Non è detto che i generali ci riescano; la gente questa volta è cosciente della propria forza e non si rassegna ad altri trent’anni di dittatura.

P. Norberto Stonfer

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