“Nostalgia”. Un’amicizia perduta nel ventre di Napoli

La impossibilità di un riscatto e l’ineluttabilità del proprio destino. Nostalgia di Mario Martone (il precedente Qui rido io sull’epopea del teatrante Eduardo Scarpetta padre dei tre De Filippo era all’ultima Mostra di Venezia) è uno dei film che ha rappresentato l’Italia, in concorso, al Festival di Cannes.

Napoli, ancora e sempre, quasi, Napoli per il regista di Morte di un matematico napoletano. E, ancora di più, il Rione Sanità, i suoi vicoli. Oltre alla Napoli di sotto, sotterranea. Tratto dall’omonimo romanzo di Ermanno Rea, scomparso nel 2016 (autore di quel piccolo grande capolavoro che, guarda caso, è Mistero napoletano) Nostalgia, in questi giorni in sala, ruota tutto attorno alle due considerazioni iniziali. Ma senza quei vicoli, le stradine strette, le case sgarrupate, fotografate magnificamente e con una sorta di amorosa dolenza dal regista, non avrebbe avuto probabilmente lo stesso sapore, intriso, da titolo, di nostalgia.

Nostalgia per l’adolescenza a cui il protagonista (Felice/Pierfrancesco Favino) ritorna atterrando a Napoli dopo quarant’anni tra Africa e Medio Oriente, alla ricerca di un’amicizia perduta. Ma anche dolore e un senso di colpa inappagati. Per una fuga a quindici anni sul cui motivo lasciamo in sospeso.

È però l’interpretazione di Pierfrancesco Favino (Hammamet e Padrenostro tra i suoi ultimi film) che non convince. Sarà il napoletano con flessione araba che è la lingua necessaria alla sua parte, sarà il sussurro che ne caratterizza l’incedere. Si percepisce quasi un imbarazzo, una difficoltà ad entrare nelle pieghe di un personaggio quasi estraneo ai luoghi nonostante vi sia nato.

Di intensità rara le interpretazioni della madre di Felice (Aurora Quattrocchi) e dell’ex amico, feroce boss di camorra (Tommaso Ragno). Il prete anticamorra, don Luigi, è interpretato da Francesco Di Leva. Di particolare forza alcune sequenze: il bagno della madre amorevolmente presa tra le braccia dal figlio, l’incontro tra l’immigrato di ritorno e il boss che vive in un ambiente squallido e abietto.

Una nota a margine che poi, alla fin fine, tale non è. C’è il “vezzo”, chiamiamolo così, di alcune produzioni, nel ritenere che gli spettatori siano a conoscenza, fin nelle sfumature, della lingua napoletana. Non è così. Certo si intuisce ma, almeno da parte nostra, non si comprende fino in fondo, perdendo così sottigliezze che fanno parte dell’opera. Dovrebbero essere messi i sottotitoli. Non ci vuole poi tanto. Certe presunzioni danno, sinceramente, fastidio.

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