Popolo sahrawi, il lungo esilio

Non una mera disputa territoriale nei confronti del Marocco, né un semplice problema di minoranze

Parlare di autodeterminazione in questo momento in cui le regioni filo-russe dell’Ucraina la rivendicano con forza rischia di sollevare un vespaio. Ma nel caso del popolo sahrawi, come più volte è stato detto – e una recente sentenza della Corte internazionale dell’Aja ha ribadito -, non si tratta di una mera disputa territoriale nei confronti del Marocco, né di un semplice problema di minoranze. Si tratta in tutta evidenza di un problema di decolonizzazione mancata. E questo chiama in causa l’Europa, Spagna e Francia, principalmente, ma non solo.

Allo stato dei fatti il Marocco è disponibile a concedere tutt’al più una vaga sembianza di autonomia – e non è dato sapere in che termini -, un decentramento amministrativo che confligge con un potere assoluto com’è quello marocchino. Il governo di Rabat non vuol neanche sentir parlare di referendum di autodeterminazione.

Il Fronte Polisario, che rappresenta il popolo sahrawi, chiede da tempo un referendum con una vera possibilità di scelta tra indipendenza, annessione e autonomia col preciso impegno di rispettare quale che sia il responso delle urne. Nel frattempo un anno fa il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha rinnovato la missione dei caschi blu (Minurso), anche se c’è da rilevare che questa è l’unica missione Onu che non si prefigge la protezione della popolazione civile. Persino il presidente Usa Obama si è sentito in dovere di rilevare tale incongruenza macroscopica. Sappiamo infatti che sul territorio desertico dei sahrawi sono presenti le truppe marocchine e non sono del tutto peregrine le occasioni di arbitrio e di violazione dei diritti umani perpetrati nei confronti della popolazione.

La gente sahrawi è dislocata in parte nei campi profughi in Algeria e in parte nei territori occupati e la cosa sorprendente è che riesce – pur in una situazione di emergenza prolungata da lungo tempo – a organizzare la propria vita nei campi, a renderla meno precaria, in qualche modo vivibile. Una scolarizzazione di massa che coinvolge davvero in modo gratuito e capillare tutti i bambini sahrawi; l’organizzazione sanitaria che, pur tra mille difficoltà, risulta essere tra le più avanzate per presenza di medici e personale infermieristico e per la premura che si mette nel riconoscere il problema sanitario come un problema prioritario per il futuro della nazione sahrawi. Peraltro non è che questo piccolo e intraprendente popolo si accontenta più di vivere nelle tende. Il fatto che quasi ogni famiglia ha un parente immigrato per lo più in Spagna permette di avere qualche rimessa per potersi costruire una casa piccola, ma confortevole, il cellulare, che ormai non manca più a nessuno, qualche altro comfort che, se da un lato garantisce una quotidianità più agevole, dall’altro porta con sé la recrudescenza di qualche fenomeno di microcriminalità e disagio sociale seppure in misura molto modesta.

Alla lunga, vivere in situazioni di precarietà logora e 15 anni di esilio nel deserto (appunto, in campi profughi o in Algeria) si fanno sentire. Ecco perché il Fronte Polisario si pone la questione di un ricambio della stretta classe dirigente che ha “governato” il popolo delle tende in questi anni e soprattutto di introdurre nel dibattito nazionale l’esigenza di qualche novità, una qualsiasi prospettiva che ridia slancio e “futuro” in uno scenario altrimenti destinato ad un lento ed inesorabile logoramento dato da una situazione senza sbocco.

Rimane da dire del ruolo delle donne nella società sahrawi che con il cessate il fuoco e la parziale smobilitazione dell’esercito ha fatto loro perdere una parte di quell’autonomia gestionale in cui si erano rese protagoniste. E anche se la Costituzione assicura pari dignità, a livello di classe dirigente sono poco rappresentate anche perché – come ammettono all’Unione nazionale delle donne sahrawi (Union nacional de mujeres saharauis) – sono ancora poche le donne che votano e parteggiano per le donne.

Per l’aspetto più prettamente religioso, si stanno costruendo moschee e si va rinsaldando il legame con l’islam visto però in maniera molto libera e “laica”, senza cioè quelle smagliature a volte soverchianti di integralismo che connotano comunità e stati non molto distanti da lì.

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