Baruffe parlamentari

Difficile prendere sul serio quel che sta avvenendo al Senato, ancor più difficile capire l’atteggiamento abbastanza guardingo con cui una parte dei mezzi d’informazione registra quanto avviene. Sostenere infatti che tutto sommato l’ostruzionismo fa parte dei legittimi mezzi di battaglia parlamentari e che le minoranze hanno tutto il diritto di fare le loro battaglie suona piuttosto equivoco.

La sostanza della faccenda è infatti un andamento del dibattito politico che squalifica le istituzioni, cosa di cui non c’è davvero bisogno visti i livelli di astensionismo e di disaffezione di cui siamo testimoni. Non è ovviamente la prima volta che nella nostra storia parlamentare si assiste a questi fuochi pirotecnici, ma va detto che altre volte c’era più costrutto e le ragioni del dibattito erano più solide di quelle su cui oggi si accanisce una classe politica che non si sa davvero quale obiettivo abbia se non quello per una parte di mandare tutto al diavolo (i grillini) e per l’altra (Sel e compagni di destra e sinistra) di portare a casa una legge elettorale che salvi i loro poteri di interdizione a dispetto della modestia del consenso che raccolgono.

I primi ad essere bruciati in questo gioco sono stati i furbetti del dissenso PD, a cominciare da Vannino Chiti, che oggi non sono in grado di tenere sotto controllo l’incendio che hanno appiccato con leggerezza. Peraltro non ci voleva grande lungimiranza politica per capire che il gioco al massacro contro il nuovo leader sarebbe diventata una formidabile occasione per guadagnare una notorietà mediatica altrimenti impossibile, cioè per accedere ad un vantaggio che in politica ha lo stesso potere d’attrazione che ha il miele per le mosche. Quanta visibilità ha mai avuto la senatrice De Petris prima di questa occasione? Chi si è mai occupato del potere di Minzolini o di quello di Casson fino alle loro intemerate contro l’accordo Renzi-Berlusconi?

Grillo merita ovviamente un discorso a parte, perché quanto a centralità mediatica non ne ha mai persa. Però era in difficoltà dopo il flop delle Europee, non sapendo bene cosa proporre come tesi portante (si fa per dire) della presenza parlamentare dei suoi. Anche qui il combinarsi dell’attenzione mediatica e delle manovre parlamentari di un po’ di kamikaze gli ha offerto l’opportunità di cavalcare lui il tema, fasullo, ma eclatante, della battaglia contro il colpo di stato.

In questa situazione la posizione di Renzi è oggettivamente non facile. Certo ha dalla sua un consenso popolare notevole, almeno a stare ai sondaggi (circa il 65% di gradimento, un livello ottimo per un premier), ma ha l’handicap di non essere un leader veramente amato dai media. Certo la maggior parte gli riconosce tante doti: ottimo comunicatore, capace di risvegliare all’azione una politica addormentata, ma… Ovviamente non è difficile trovargli delle debolezze: ha una squadra non del tutto all’altezza del compito arduo che si è scelto, è molto guascone nelle sue prese di posizione, ha la smania di fare tutto o almeno di annunciare di voler fare tutto. Dunque è un bersaglio facile non solo per la satira politica, sempre piuttosto qualunquista, ma per le critiche degli “opinion leader” di giornali e talk show.

Il fatto è che in Italia c’è un’innata idiosincrasia per i leader. E’ come per i poveri: tutti li amano se sono belli, puliti, educati, ma provano fastidio quando scoprono che nella realtà sono spesso pieni di difetti anche poco simpatici. Così è per i leader politici, cioè per quelli che hanno la strategia di guidare il proprio paese verso un cambiamento: è stato così per De Gasperi (santificato da morto, non quando era in vita), per Fanfani, per Moro, per Craxi. Semmai piacciono i leader amletici, quelli che sognano, ma non realizzano, tipo Berlinguer.

Ora questo modo di approcciare la situazione finisce per lasciare al leader riformatore solo la via del ricorso alla prova elettorale, nel tentativo di garantirsi coi voti della gente quella legittimazione che gli consenta di sfondare il muro delle opposizioni di un sistema frammentato in tribù che si credono rappresentanti di progetti universali a cui si unisce lo scetticismo di classi dirigenti che in fondo hanno paura di non riuscire più a giocare la loro partita se il leader diventa forte.

Lo scivolamento nella logica del braccio di ferro elettorale è il rischio di fronte al quale siamo posti dalle baruffe senatoriali. E visto quel che comporta, non c’è proprio da augurarselo.

vitaTrentina

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