Esodo dalla fede

Nel libro dell’Esodo, Mosè è descritto come un condottiero, e ciò lo rende senza dubbio un buon personaggio per un film. Per la Bibbia la forza di tale condottiero è l’esperienza fondamentale della fede, che gli viene dall’incontro mistico con Dio. Mentre invece il Mosè rappresentato ora da Ridley Scott (“Exodus – Dei e re”) si guarda bene dal credere a ogni cosa senza un sano scetticismo. Questa discrepanza potrebbe infastidire, essere considerata come un grave travisamento di ciò che la Bibbia racconta. Il che non stupisce: guardare il film aspettandosi una conferma fedele (e perfino un’enfatizzazione: in 3D!) della storia sacra è un atteggiamento che quasi inevitabilmente delude. Un progetto cinematografico di questo tipo, destinato al grande pubblico, invece, merita attenzione se ci si preoccupa non di misurare esattamente il grado di fedeltà (in fondo il carattere mitico di queste storie lascia uno spazio legittimo di interpretazione), quanto piuttosto di valutare come cambia il modo delle persone di confrontarsi con le tradizioni religiose.

Il sorriso di Mosè

Torniamo alla fede di Mosè: nel classico film di Cecil B. DeMille I dieci comandamenti (1956) non c’erano dubbi in proposito. All’epoca della distribuzione di quel kolossal, per tante persone guardare il film con partecipazione significava impersonare l’eroe, la sua audacia e soprattutto la sua fede che non vacilla, non esita, non ondeggia. I moltissimi spettatori di quel tempo, commossi, desideravano avere la stessa fede di Mosè (Charlton Heston). Ma i tempi sono cambiati. Per il grande pubblico oggi l’approccio è diverso. Per molti è sempre più difficile immedesimarsi con una fede pura e cristallina, perché ciascuno coglie immediatamente quali siano i dubbi che covano attorno alla fede.

Ecco allora apparire, nel Mosè riveduto (Christian Bale), un eroe convincente nel quale molti non faticano a immedesimarsi, per il suo modo sincero ma dubbioso e vacillante di credere.

All’inizio del film, quando Mosè compare come figlio prediletto adottato dal saggio faraone Seti, subito viene mostrato (prima della sua abilità nel combattimento) con un sorriso scettico nei confronti degli aruspici devotamente ascoltati da Seti, e della tradizione egiziana. Più tardi, dopo la morte di Seti, una volta esiliato dal fratellastro Ramses e sposatosi con Zippora, Mosè viene da lei redarguito per il suo approccio educativo per così dire laico nei confronti del figlio Gershom. «È bene che un ragazzo cresca senza credere in niente?» gli chiede la moglie madianita, che riceve in risposta la spiazzante contro-domanda: «Ed è male che cresca credendo in se stesso?». Lo scetticismo di Mosè è dunque perfettamente moderno: rispettoso, conciliante, ma sicuro della propria posizione adulta e “illuminata”.

«Chi sei?»

Proprio qui però si inserisce l’incontro di Mosè con il Dio altissimo sull’Horeb, la montagna sacra che egli puntualmente aveva raccomandato al piccolo Gershom di non considerare davvero come “montagna di Dio”. Non per qualche esoterica chiamata, ma da avveduto e buon pastore, Mosè vi sale per rincorrere alcune pecore fuggite, finché rimane travolto da un’acqua torrenziale. Scaraventato tra le rocce della montagna, Mosè si sveglia in piena notte, ferito e coperto dal fango, davanti a un fuoco che non scalda e non ravviva la luce notturna virata verso il blu. L’immagine è efficace: l’incontro con il divino, inatteso e sconvolgente, mette a soqquadro l’esistenza. Dal mistero divino non si sprigiona però l’aspetto fascinans ma solo il tremendum. Il solido Mosè si perde e trova un Dio non proprio paterno ma piuttosto capriccioso.

«Chi sei?» domanda egli al bambino che compare accanto al roveto. «Io sono» gli risponde seccamente il ragazzo, mentre la scena si interrompe di netto, facendo pensare – dopo il risveglio del protagonista – ad una visione, un sogno, un incubo. La scelta del Dio-bambino, nonostante le comprensibili critiche espresse nei paesi islamici, appare coerente con l’idea dell’ineffabile Nome divino rivelato nella Bibbia a Mosè, mostrando la “pienezza dell’essere” di Dio. Tale scelta suggerisce anche il tema dell’incomprensibilità del divino, sfuggente e sferzante. Ma questa rivelazione non spalanca gli occhi e la mente di colui al quale si destina. Al contrario: nasce e alimenta in Mosè l’inquietudine del dubbio. Il suo stesso scrupoloso obbedire alle ingiunzioni divine sembra venire peraltro non per scelta, ma per necessità.

Le piaghe e la collera

Insomma la scena della rivelazione divina non vuole convincere né Mosè né il pubblico del film, ma disseminare in tutti invece un “sano” dubbio. Ciò prepara a fronteggiare con precauzione i passaggi più ardui, che riguardano le piaghe d’Egitto. Nel film Mosè appare nel vano tentativo di frenare l’insofferenza e la collera di Dio (o almeno di comprenderle), mentre le scene ne mostrano con ritmo implacabile le ripercussioni: il sangue che copre la superficie del Nilo, le invasioni di cavallette, rane, locuste, grandine e infine il culmine, quello che mette di fronte all’incomprensibile: la morte di tutti i bimbi maschi primogeniti. Come si può guardare a tutto ciò come segni della benevolenza divina?

Una buona domanda anche per i lettori della Bibbia. Qui però non si prova a rispondere, ci si limita a enfatizzare il quesito. Manca del tutto l’idea di un Dio «lento all’ira» (Es 34,6), che non impone arbitrariamente tutti i mali ma al contrario sembra almeno in parte annunciarli, frenarli, distribuirli, alleviarli. Profeti severi come Giona e Geremia protestarono perfino per questa lentezza di Dio, vedendo quasi in essa la sua debolezza. Ridley Scott sembra d’accordo con loro e li accontenta, mostrando un Dio capriccioso che non sa far altro che agire con furore implacabile e rappresentando le piaghe d’Egitto in vigorose scene horror.

La Bibbia a Hollywood

Il finale porta fino in fondo l’idea di una rivisitazione secolare di un mito possente, che ha alimentato e continua ad alimentare la fede dei credenti. Non è Dio a dettare le tavole della Legge, marcandole magicamente come nel film di DeMille. È invece Mosè a incidere pazientemente le tavole con un piccolo scalpello. Lo fa mentre parla con Dio, il che ci rassicura del suo operato. Una bella intuizione, anche se, nel film, questo parlare tra i due alimenta sempre il dubbio. È davvero dialogo, o monologo? Ha realmente incontrato Dio, Mosè? Non lo sa naturalmente, e non se n'è convinto nemmeno quando il Mar Rosso si apriva per condurli verso la salvezza.

C’è sempre un buon motivo per dubitarne, ci ricorda scrupolosamente il film. Forse è per questo, si pensa a Hollywood, che vale la pena di continuare a fare o rifare per tutti i clienti grandi film biblici.

A proposito, preparatevi: ora è in arrivo una nuova versione di Ben Hur, affidata a Timur Bekmambetov, il regista de La leggenda del cacciatore dei vampiri.

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