Più grande della morte

Papa Francesco ha celebrato la Messa in Santa Marta, martedì 17 febbraio, per i 21 copti egiziani uccisi in Libia, "per il solo motivo di essere cristiani". Ultimi di una lunga lista di uomini e donne perseguitati per la loro fede. Chicchi di grano, destinati a portare frutto, dice il Vangelo di Giovanni. Per raccontare la storia di tanti “chicchi di grano”, un gruppo di universitari di Bologna – Francesco, Rebecca, Mirko ed Andrea – ha curato l’incontro “Un amore più grande della morte – Testimonianze di cristiani perseguitati”, ospitato dall’oratorio di Caldonazzo giovedì 12 febbraio.

Dopo il saluto di Anita Defrancesco, presidente dell’Associazione Culturale Nitida Stella, che ha promosso l’iniziativa, ed un momento di intrattenimento con l’arpa di Chiara – per sottolineare, grazie alla musica, la voglia di essere vicini a tutti coloro che sono perseguitati a causa della loro fede -, Francesco ha presentato il lavoro del gruppo, spiegando come siano state le parole del Papa a spingere lui ed i suoi amici ad approfondire la tematica del martirio.

Le persecuzioni nei confronti dei cristiani coinvolgono circa 50 milioni di persone ed una quarantina di Paesi. Nella prima parte della serata, i ragazzi hanno fatto una panoramica sulla situazione dei cristiani in Cina, Corea del Nord, Siria, Iraq, Pakistan, Nigeria e Sudan; nella seconda parte, invece, hanno letto e proiettato le testimonianze di persone che hanno vissuto sulla propria pelle il martirio, grazie alle quali hanno scoperto qualcosa in più sulla natura della persecuzione.

Innanzitutto, “la persecuzione ed il martirio mettono in luce un bene, non un male”, perché sono occasione di fede e di carità, come raccontano le testimonianze del Cardinal Sako, patriarca dei cattolici caldei in Iraq, e di Wael Farouq, musulmano egiziano docente presso l’Università de Il Cairo e la Cattolica di Milano.

Altro elemento importante è la memoria della storia di coloro che rischiano ogni giorno la propria vita a causa della fede – fede che è forza grazie alla quale riescono a sostenere il peso di soprusi ed intimidazioni, e che trapela dalle letture delle parole delle monache trappiste benedettine che hanno dato vita ad un monastero in Siria, di don Gioele Salvaterra, parroco italiano che ha parrocchia poco lontano dalla Striscia di Gaza, di Nawras Sammour, gesuita siriano, di Mariam, sudanese scampata alla morte, accusata di aver abbracciato la fede materna – cristiana – anziché quella paterna – musulmana -, di Shahbaz Bhatti, pakistano che si è speso per i diritti delle minoranze religiose ed è stato ucciso nel 2011, e della famiglia di Sanaa, irachena che da anni vive a Bologna.

Tutto quello che il martire desidera è imitare Gesù Cristo, come si evince dalle testimonianze citate di Padre Ayvazian, sacerdote siriano di rito armeno, e di Padre Francois Mourad, frate francescano che ha fondato un monastero nel nord della Siria, ucciso nel 2013. Desiderio del martire è infine quello di manifestare quanto l’amore sia più forte della morte; questa volontà si riscontra nelle citazioni da Padre Thomas Chellan, cristiano indiano, e dalla vicenda di due sacerdoti della chiesa di Nostra Signora del Perpetuo soccorso di Baghdad, uccisi da uomini di Al Qaeda nel 2010 assieme ad una cinquantina di fedeli.

Il martirio dev’essere testimonianza d’amore e di pace: per questo il cristiano muore senz’odio nei confronti del suo aguzzino, cosciente di quella che è una vera e propria missione, che gli impedisce di abbandonare tutto – in primis la sua fede. Ed è la coscienza di questo compito che è incarnata dalla storia di Padre Ragheed Ghanni, iracheno ucciso da un gruppo di fondamentalisti islamici a soli 34 anni, nel 2007. E, grazie al sacrificio di sé, si manifesta un paradosso: il martirio diventa fecondo, come avviene nel seminario di Jos in Nigeria, che registra un aumento di vocazioni, nonostante le disastrose condizioni in cui versano i cristiani nel Paese.

In ultima battuta, si è chiesto il gruppo di ragazzi, qual è il nostro compito nei confronti delle persone che sacrificano la loro vita in nome della fede? Per rispondere a questa domanda, sono state proiettate le parole di Padre Cervellera, missionario del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere) e direttore di “Asia News”, e di Wael Farouq: il nostro compito, oggi, è quello non solo di testimoniare quanto queste persone hanno vissuto e vivono, ma anche di imparare da loro a rischiare la vita per la fede.

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