Ai piedi del vulcano

Il suo secondo film, a cui sta lavorando, riguarderà la realtà urbana del Guatemala. Intanto, dopo diversi corti premiati in numerosi festival internazionali, il trentottenne guatemalteco Jayro Bustamante ha vinto alla Berlinale l’Orso d’argento al suo esordio nel lungometraggio salendo sugli altipiani rurali del Paese centroamericano dove vive la comunità Maya, che il regista conosce bene per averci passato parte dell’adolescenza. Vulcano (Ixcanul il titolo originale) in programmazione all’Astra di Trento fino a domenica (un’ora e mezzo in originale, non doppiato, si segue comunque benissimo), non lascia indifferenti. Da una parte è infatti un ritorno (almeno per noi europei) ad un realismo lineare, al racconto minimo ma nello stesso tempo esauriente. Dall’altra pare quasi di scorrere le pagine di un saggio di Gunder Frank sul sottosviluppo dell’America Latina anni Settanta che per quanto affrancatasi almeno in parte grazie ad un potente movimento riformatore che ha cambiato negli ultimi anni fette consistenti del continente, ancora non è scomparso. Come più di un critico ha sottolineato, Vulcano non è però un saggio etno-antropologico di carattere documentaristico (è cinema cinema) ma è palese che ciò che scorre sullo schermo fa risaltare, senza equivoci, le condizioni di subalternità della famiglia di contadini, dedita alla raccolta del caffè, al centro della storia. Il cui unico “bene” è la figlia da far sposare il meglio possibile, dal mezzadro. La qual cosa, pur ormai definita nei dettagli, non succederà perché Maria rimarrà incinta di un altro, di Pepe, ragazzo che poi inseguirà il suo sogno americano lasciandola ai piedi del vulcano, presenza imperitura, simbolo di una condizione millenaria, atavica, in cui anche l’antica lingua maya sopravvive e segna la frattura con la civiltà urbana dove lo spagnolo esemplifica il retaggio della dominazione coloniale. Se a questo si aggiunge una spiritualità antica, imbevuta di riti, quello per scacciare i serpenti che con la loro presenza impediscono di coltivare a mais il terreno ne è una rappresentazione concreta (pur nel fallimento), il cerchio si chiude. Per un attimo viene alla mente “la roba” di padron ‘Ntoni, che è tutto, l’unico bene. Così Maria, e non si pensi per cinismo, il rapporto tra lei e la madre è di una tenerezza commovente, ma per necessità, per sopravvivenza. Bustamante introduce anche l’elemento della compra-vendita dei neonati ma è l’aspetto meno incisivo e approfondito, sembra avere più che altro una funzione di raccordo. Come si è aperto, Vulcano si chiude. Nell’abito più bello e colorato possibile, Maria, il suo sguardo vacuo e rassegnato in primo piano vale tutto il film, viene nuovamente promessa in sposa. Verga scriveva qualche secolo fa. In troppe parti di questo mondo “distratto” ciò che era vero allora è realtà quotidiana. Purtroppo e senza scampo.

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