La nube tossica di La7

In margine al “caso don Gino”: pochi giudicano la violenza manipolatrice di chi pretende la dichiarazione pubblica e se non la ottiene la estorce comunque con la telecamera puntata a terra ma accesa

La settimana scorsa abbiamo fatto esperienza un po' tutti, chi in modo diretto chi indiretto, di una tempesta mediatica. Del suo scatenarsi improvviso e della sua virulenza. C'è qualcuno che non sia stato toccato almeno di striscio, dal «caso don Gino» scatenato da La7, martedì 6 ottobre?

A tempesta sgonfiata, vale la pena valutare non tanto cosa resti sul terreno – gli effetti dello scandalo come quelli dell'inquinamento emergono a distanza – ma piuttosto a che cosa abbiamo assistito realmente.

Potenza del caso, ma forse non del caso, la tromba d'aria virtuale si è alzata da un programma quotidiano che si intitola L’aria che tira, e in un attimo c’erano dentro tutti, giornali locali e nazionali, tv e social network, perfino siti web internazionali. Tutti a gonfiare ulteriormente, con la violenza di cui parlava Serena Dalla Torre in questa rubrica alcune settimane fa, la bolla d’aria. Tutti a scandalizzarsi, a gridare allo scandalo, a chiedere teste; senza sapere veramente di che cosa stiamo parlando. Di un vecchio prete che, nello specifico, non sa quel che si dice e a chi lo dice, o di un sistema televisivo che va a caccia di preti simili, per montare o alimentare gli scandali?

Il primo è stato sotterrato da una montagna di esecrazione sociale, senza appello. Ben pochi, invece, hanno sottoposto a giudizio una giornalista che, non riuscendo a raccogliere vento per alimentare lo scandalo in corso su Chiesa e omosessualità, dalle persone chiamate in causa – i padri Venturini – e non avendo ottenuto dichiarazioni da una fonte autorevole alternativa, come poteva essere la Diocesi, ripiega sulla fonte assolutamente non autorevole, e su quella costruisce il caso e, con quella, forza la Diocesi a prendere posizione. Da manuale: se non hai il pezzo, servi il fango e farai parlare.

Pochi giudicano l'operato di giornalisti come questi, che non vogliono conoscere la realtà di un Istituto Religioso, ma cercano parole che rinforzino l’immagine che stanno costruendo di un'istituzione che «redime i preti omosessuali». Pochi giudicano la violenza manipolatrice di chi pretende la dichiarazione pubblica e se non la ottiene la estorce comunque con la telecamera puntata a terra ma accesa; che non si presenta con il proprio nome, ma accampa contro ogni evidenza di aver già parlato al telefono con te; oppure dichiara impunemente di andare in cerca di affermazioni su temi altamente sensibili con la telecamera nascosta. E quelle affermazioni estorte potranno essere usate contro di te nel tribunale televisivo, dove il privato cittadino non ha neppure diritto ad un avvocato di difesa.

Ma quel che è peggio, è che nessuno sembra giudicare un'emittente nazionale del calibro di La7, che non solo accetta ma costruisce la propria identità su di un giornalismo urlato di questo tipo. Ed era la rete da cui, in Italia, si attendeva l'alternativa al degrado raggiunto, nel corso degli anni, da Mediaset e Rai. Ma il suo personale degrado informativo ha raggiunto livelli tali da essere messo alla berlina dall'interno della stessa rete, nel varietà satirico di Maurizio Crozza.

Cosa più triste ancora è che di fronte alla deriva irrazionale e violenta dell'informazione, in tempi come i nostri sull'orlo di nuove barbarie, Ordine dei giornalisti e Authority non abbiano niente da dire, e che giornalisti anche autorevoli reggano il «gioco gladiatorio» che mesta liquami e aizza il pubblico a volgere il pollice in basso. E il pubblico, oggi come ieri, riempie gli spalti.

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