Vi sono nozze… e nozze

I lettura: Isaia 62,1-5;

II lettura: 1Corinzi 12,4-11;

vangelo: Giovanni 2,1-11

Stavano per fare una gran brutta figura quegli sposi di Cana! Come si può organizzare un banchetto di nozze senza prevedere una buona riserva di vino? Per fortuna c’era Gesù a quelle nozze, e prima ancora Maria (era lei l’invitata), e siccome se ne stava in cucina con le donne, se ne accorse in tempo: “Non hanno più vino…”. Mi piace quest’espressione, non tanto per via del vino (che pure non mi dispiace) ma perché si riferisce alle persone. Avrebbe potuto dire: “Siamo all’ultima bottiglia…” o “ sta finendo il vino…”. E invece no, la sua preoccupazione era per le persone: “Non hanno più vino…”, cioè rischiano di restare senza gioia, senza allegria. Sì, è vero: ci stiamo abituando a esperienze di allegria che finiscono presto; sposi che spendono fior fiore di quattrini per la festa di nozze e dopo qualche mese… non hanno più vino e se ne vanno ognuno per conto suo. Per stare insieme tutta una vita ci vogliono buoni motivi, durevoli soprattutto, altrimenti il vino finisce, o diventa aceto. Oh, non crediate che capiti solo agli sposi! Anche tra noi preti, anche tra le persone consacrate, accade che qualcuno resta senza vino buono: non ha più motivi per continuare ad essere ciò che aveva scelto di diventare. E molla tutto. Sono tutti colpevoli, irresponsabili? Solo Dio sa come stanno effettivamente le cose, lasciamoli a lui i giudizi.

Quello che è certo è che il nostro vino, per quanto abbondante, prima o poi si esaurisce, finisce. Al giorno d’oggi poi, proprio questi tempi, proprio questa cultura che respiriamo, sembrano fatti apposta per prosciugare le nostre risorse di vino buono. E ci resta l’acqua. Ma l’acqua non dà allegria, non dà ebbrezza. Può darsi che allora si vada avanti comunque, sia nel matrimonio, sia in altri stati di vita (come quello del prete): non è detto che si molli tutto, ma si continua, non dico senza entusiasmi (perché gli entusiasmi sono comunque passeggeri), ma senza soddisfazione, senza quella carica interiore che fa dire: sì, ne vale la pena. Ci sono sposi che stanno assieme tutta una vita per amore… e altri che non si separano mai solo per convenienza. Come ci sono preti, frati e monache zelanti, e altri che invece hanno già esaurito il vino buono e vanno avanti ad acqua. O ad aceto.

Gesù Cristo era certamente un brav’uomo, ma se ha cominciato la sua attività cambiando acqua in vino a una festa di nozze, non è stato solo per evitare una brutta figura a quello sprovveduto che aveva organizzato il banchetto. No, se Giovanni l’ha descritto nel Vangelo come il primo segno compiuto dal Signore è perché qui c’è una novità, una buona notizia che sarebbe da irresponsabili prendere sottogamba. Ecco di che si tratta: Dio è qui per sposare – sì, proprio “sposare” – questa nostra umanità; è qui, nella persona di Gesù, per avviare una festa di nozze: lui è lo Sposo e la Sposa è quest’immensa carovana umana che cammina sulla faccia della terra. Si dirà che è strano questo modo di parlare, ma è la Bibbia, sono i profeti, ad usare un tale linguaggio. Sta così a cuore a Dio instaurare una relazione forte e appassionata con noi che non si è fatto scrupolo di presentarsi come Sposo e di guardare alla nostra umanità come alla sua futura Sposa.

Il vino poi, quello che a noi a un certo punto viene a mancare, è lui stesso che lo fornisce: è Gesù lo Sposo. Grazie a lui anche la nostra acqua può diventare vino buono che dura sino alla fine. Sì, Dio è qui a chiedere la nostra mano, come un innamorato che non vede l’ora di arrivare alle nozze. Chi sarà così irresponsabile da rifiutare la mano a Dio, a Gesù Cristo? Qual è la coppia, la famiglia, che dopo aver cominciato davanti all’altare nel nome di Dio, si illude di non aver più bisogno di Gesù Cristo, del suo vino buono che dura fino alla fine? Perché aspettare che si esauriscano le nostre riserve personali di vino, prima di accorgerci che quello buono e inesauribile ce lo offre il Signore? Perché rischiare di andare avanti ad acqua? Vale per tutti, sia chiaro, in qualsiasi stato di vita o professione: ci vuole amore, per andare avanti “vivendo”. Senza amore non si vive; si vegeta. E l’amore bisogna attingerlo costantemente alla sorgente: è Dio la sorgente dell’amore. Al giorno d’oggi, tra il resto, abbiamo il fondato sospetto che Egli ci stia aprendo davanti certe opportunità dalle quali potrebbe venire a noi vino nuovo, se le sapremo cogliere.

In questa domenica si celebra in tutte le Comunità la Giornata del Migrante e del Rifugiato: un fenomeno ormai di vaste proporzioni che richiede un’attenzione seria e un approccio equilibrato. Il rischio, sotto gli occhi di tutti, è quello di valutarlo partendo esclusivamente dalle sue manifestazioni negative: non solo non sarebbe cristiano, ma decisamente superficiale e controproducente. Se è vero – com’è vero – che è la Provvidenza di Dio a guidare la storia degli uomini, e che il suo Regno è in mezzo a noi, allora (pur senza misconoscere gli aspetti problematici che può comportare), si deve riconoscere che anche un tale fenomeno è portatore di opportunità. E non solo di carattere economico, o relative al mercato del lavoro, ma soprattutto di cultura, di valori, di umanità, che possono dare nuova linfa a una società come la nostra che, proprio su questo fronte, appare piuttosto inaridita. Pertanto sì, diamo fiducia a Dio: permettiamogli di trasformare in vino buono la nostra acqua, nei modi che vorrà.

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