8 marzo, quanta strada ancora da fare

Sono passati poco più di cent’anni dall'8 marzo 1908 – data “simbolo” di una tragedia operaia – e l’istinto porta a chiedermi: “Cos’è cambiato da allora?”.

Vediamo: non laviamo più i panni alla fontana, possiamo votare dal 1946, via via nel tempo ci siamo appropriate anche di lavori di apparente prerogativa maschile; attraversando numerosi decenni, abbiamo scritto, parlato, urlato in vari modi della nostra esistenza.

Risultati ce ne sono stati, per fortuna, ma la cronaca, tutti i giorni, entra senza filtri o permessi nelle nostre case, portandoci una realtà cruda e inaccettabile per noi donne, con notevoli varianti sul tema ‘violenza’.

Il termine ‘femminicidio’, moderno neologismo, è figlio di tutto ciò.

Senza arrivare però, a questo estremo, c’è ancora tanta strada da fare nel rispettare semplicemente una donna. Penso proprio che manchi, spesso, questo ingrediente nel rapporto uomo-donna (ma anche in generale): il rispetto.

Si è perso per strada. Urge trovarlo.

I media non aiutano, anzi. Vince il cliché della donna che ricopre i soliti ruoli a seconda dei vari contesti. La pubblicità, per esempio, ti insegna che una mamma non si arrabbia quando il figlio entra in casa infangando il pavimento appena lavato, anzi sorride benevola. Che è contenta di caricare la lavatrice di vestiti sporchi, perché può usare il ‘magico’ detersivo che toglie tutte le macchie.

Io vorrei che si potessero togliere altre ‘macchie’.

Vorrei che la donna potesse esprimere le sue potenzialità senza per questo entrare in conflitto con l’uomo. Non è una gara a chi schiaccia di più. Almeno non dovrebbe esserlo.

La donna non è una minaccia quando pensa, propone, condivide, si infiamma per un ideale. Non dovrebbe essere costretta a tradire sé stessa per raggiungere i propri obiettivi. Vorrei che potesse scegliere liberamente di lavorare o, se le condizioni lo permettono, di seguire la famiglia con la gioia di poterlo fare. Vorrei che non dovesse rinnegare dolcezza, sensibilità, comprensione, accoglienza come sentimenti superati da non mostrare perché potrebbero essere confusi con la debolezza. Come, peraltro, non vorrei la sua ‘mascolinizzazione’, modalità che sta avanzando nella società, come scotto da pagare per essere accettata dalla comunità maschile.

Nello stesso tempo, vorrei però, augurare ad ogni uomo, di poter guardare con occhi nuovi la donna, qualunque sia il suo ruolo. Di non averne paura se ha successo nel lavoro o segue una carriera impegnativa o semplicemente vuole condividere alla pari i lavori in famiglia senza dover mendicare un aiuto. Di non farla piangere, perché le lacrime di una donna sono preziose…

Neppure noi siamo senza difetti, tutt’altro. Siamo noi le prime a riconoscerlo. Quando un uomo dice che “chi capisce le donne è bravo”, gli do ragione, perché io stessa alle volte non mi capisco! Eppure è proprio qui il bello: reinventarsi, rincontrarsi, riaprirsi al dialogo, riappropriarsi della tenerezza a tutti livelli senza la paura di mostrarsi fragili, scoprendo che è invece la nostra forza.

Vorrei terminare con un bellissimo pensiero tratto da “Lettera alle donne” di San Giovanni Paolo II:

Sono convinto però – scriveva San Giovanni Paolo II in un pensiero bellissimo della sua Lettera alle donne – che il segreto per percorrere speditamente la strada del pieno rispetto dell’identità femminile non passa solo per la denuncia, pur necessaria, delle discriminazioni e delle ingiustizie, ma anche e soprattutto per un fattivo quanto illuminato progetto di promozione, che riguardi tutti gli ambiti della vita femminile, a partire da una rinnovata e universale presa di coscienza della dignità della donna.

Chiara M.

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