Con gli occhi di Samuele

Gianfranco Rosi continua ad inanellare premi. Dopo il Leone d’oro veneziano con Sacro GRA nel 2013, è fresco dell’Orso più prestigioso alla Berlinale per Fuocoammare in un’edizione molto concentrata sui temi dell’immigrazione e dell’integrazione. Il documentarista fa di Lampedusa – l’isola degli sbarchi di migliaia e migliaia di persone in fuga da guerre, povertà e disperazione, una delle porte d’entrata in Europa – il focus del suo lavoro. Perché è tutta l’isola, più vicina all’Africa che al “vecchio” continente, che partecipa ad un canto corale, protagonista, suo malgrado, dell’attualità, drammatica quanto, almeno finora, senza una via d’uscita umanamente e politicamente accettabile che non sia quella di campi profughi e respingimenti, caos e incapacità da parte dell’Unione europea di concordare una politica comune capace di accogliere e diluire equamente i flussi.

Va detto che il docufilm non fa della facile sociologia. Sceglie di guardare, in parallelo, ai profughi, al loro recupero in mare ma anche agli abitanti di questa zolla di terra spersa nel Mediterraneo. Gli occhi sono quelli di Samuele, di un bambino, quindi, ma anche del medico del posto, Pietro Bartolo, “che non si abituerà mai a contare i morti”, ed è una delle sequenze più forti e riuscite, come di altri lampedusani. Sono però due piani che, in qualche maniera, sembrano rimanere scollegati, pur essendo, come ovvio, se non altro per unità di spazio e tempo, intrecciati. E’ come non riuscissero a trovare una sintesi, un nesso che non sia quello causale. Certo, gli occhi sono anche quelli dei visi ripresi in primo piano di tanti rifugiati, spauriti, dolenti. E la catasta dei morti dentro la stiva di una carretta. Come pure l’opera di ricerca e recupero dei dispersi in mare dei militari italiani. Sono sequenze “perfette”, ci si passi il termine, che colpiscono, di un straordinaria “bellezza stilistica”, e non ci si fraintenda. Non c’è uno scarto, un fraintendimento, qualcosa che non sia al suo “posto” (in questo senso l’asciuttezza del Mare chiuso di Andrea Segre è inarrivabile).

Fuocoammare ha il merito di concentrarsi anche (e parecchio) sui lampedusani che da anni accolgono e sono toccati nel profondo dal dramma dei profughi, spesso in totale solitudine; ma nello stesso tempo divide. Perché, parallelamente, risulta fin troppo costruito. Quasi, paradossalmente, poco documentaristico. Non può non commuovere, anche dolorosamente, quasi a “soddisfare” la nostra indignazione a fronte della “cattiva coscienza” di molti. Questa è l’impressione una volta usciti dalla sala. Va certo visto Fuocoammare, se non altro per intuire quanta sia la discrepanza, la lontananza, tra chi si rivolta ad un dramma epocale e quelli che invece decidono sulla pelle di milioni di uomini, donne, anziani e bambini, il cui unico torto è essere nati nella parte “sbagliata” del mondo.

IL FILM

TITOLO Fuocoammare

REGIA Gianfranco Rosi

INTERPRETI Samuele Pucillo, Mattias Cucina, Samuele Caruana, Pietro Bartolo, Giuseppe Fragapane

GENERE Documentario, 107 min. –

PRODUZIONE Italia, Francia 2016

PROIEZIONE Trento Astra fino a domenica 6 marzo

IL REGISTA

Gianfranco Rosi, nato ad Asmara, in Eritrea, nel 1964, è cittadino italiano e statunitense. Esordisce nel cinema, mettendo fin dall’inizio in mostra una spiccata sensibilità di carattere sociale, con un mediometraggio, Boatman (1993), a seguito di un viaggio in India. Subito riceve l’attenzione di diversi festival internazionali. Anche Afterwords (2001) e Below Sea Level (2008) trovano i consensi della critica. A Venezia, nel 2013, si aggiudica il Leone d’oro con Sacro GRA e poche settimane fa l’Orso d’oro a Berlino per Fuocoammare.

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