La tesi di Marta

La singolare esperienza della roveretana Matassoni, volontaria dell'Operazione Colomba nel campo profughi di Tel Abbas, in Libano

Per cinque mesi ha condiviso la vita dei profughi siriani in fuga dalla guerra scoppiata cinque anni fa, nel marzo 2011, in seguito alla repressione violenta delle prime manifestazioni contro il regime di Bashar al-Assad, che hanno fatto precipitare la Siria in un lungo inverno. Marta Matassoni, roveretana, 24 anni, in questa singolare esperienza si è buttata con tutta la freschezza della sua giovane età per ragioni di studio. L'origine storica dei campi profughi e la loro evoluzione nel tempo, fino al caso particolare del campo di Tel Abbas, nel nord del Libano, da dove provengono i 29 siriani accolti a Trento nelle scorse settimane, è l'oggetto della sua tesi di laurea magistrale in Sviluppo Locale e Globale, che discuterà nella prossima sessione, il 21-22 marzo all'Università di Bologna. Ma ben presto, riconosce, le è risultato difficile, se non impossibile, mantenere il distacco della studiosa e si è lasciata coinvolgere totalmente dalle vite dei profughi. “Oggi per me rappresentano quasi una seconda famiglia”, ci dice nella tranquillità di Villa San Nicolò, la struttura dell'Arcidiocesi di Trento vicino a Ravina dove sono ospitati i profughi siriani giunti in Italia il 29 febbraio scorso con il corridoio umanitario promosso dalla Comunità di Sant'Egidio con la Tavola valdese e le comunità evangeliche italiane e dove continua l'accompagnamento con i volontari dell'Operazione Colomba e gli operatori della Fondazione Comunità Solidale.

“Per dimensione e durata – spiega Matassoni – l'esodo del popolo siriano in fuga dalla guerra rischia di avvicinare le sorti del popolo siriano a quelle del popolo palestinese. Di fronte ai continui sbarchi sulle coste europee ho voluto approfondire lo studio sui campi profughi e sulle possibili soluzioni per l’accoglienza dei rifugiati”. La chiusura delle frontiere da parte di alcuni Paesi europei, da una parte, e la ricerca di canali umanitari, dall'altra, rendono più che mai attuale il dibattito sulla gestione dei flussi di profughi. “Come scrivo nella mia tesi, la popolazione di rifugiati a livello mondiale è sempre più numerosa e i campi profughi rimangono un pilastro dell’accoglienza. Ma sono luoghi che non facilitano il dialogo e l’integrazione, elementi indispensabili per affrontare la fase storica in cui ci troviamo”.

Grazie alla presenza dei volontari dell'Operazione Colomba, il campo di Tel Abbas da “non luogo” è diventato invece un caso esemplare. “Nonostante il peso dei lutti, le sofferenze patite, l'essere a stento sopportati in territorio libanese, i profughi a Tel Abbas non sono rimasti con le mani in mano. Hanno costruito una scuola per i loro bambini e un piccolo parco giochi”, racconta Matassoni. La presenza dei volontari internazionali ha fatto in qualche modo da catalizzatore in questo processo di “ri-umanizzazione” dei rifugiati. “Condividendo con loro ogni momento della giornata abbiamo fatto sì che non si sentissero più solo 'profughi', abbiamo restituito loro l'umanità perduta”, osserva. E' questo stile di presenza, scoperto per la prima durante un corso di formazione dell'Operazione Colomba che, dice, l'ha convinta a partire. “Se c'è un problema lo devi risolvere con le persone che da quel problema sono toccate, non puoi arrivare tu da fuori con la tua soluzione. Quando ho capito che Operazione Colomba funziona così ho pensato: ok, è il mio posto, è il mio progetto”. Il ruolo dei volontari è stato quello di ponte tra i profughi, l'Unhcr (l'organizzazione delle Nazioni Unite per i rifugiati) e le varie Organizzazioni non governative del territorio, oltre che nei confronti della comunità libanese, in particolare di quella cristiana. “Per ragioni storiche i cristiani libanesi sono molto diffidenti nei confronti dei siriani, che sono quasi tutti musulmani. Grazie alla nostra presenza, c'è stato un inizio di conoscenza, qualcuno è venuto al campo profughi, si sono avviate relazioni”.

In Libano Marta Matassoni è arrivata la prima volta nel marzo 2015, fermandosi tre mesi. Ed è poi tornata per tre settimane, per preparare la partenza di un gruppo di profughi verso l'Italia. “Quando è stato chiaro che la situazione in Siria non sarebbe migliorata in tempi brevi e mentre anche in Libano diventava sempre più difficile vivere, si è fatta strada nei profughi l'idea di partire affidandosi ai trafficanti di esseri uomani, via mare”, spiega Matassoni. “Abbiamo capito che non bastava più la nostra presenza nel campo, accanto a loro, ma occorreva creare un'alternativa per il futuro: un canale umanitario verso l'Italia”. La prospettiva si è concretizzata alla fine di febbraio. “Sono partiti con la consapevolezza di trovare in Italia un contesto culturale molto diverso”, spiega Matassoni, “e questo faceva paura. Ma sapevano anche che ci sono tante persone che li aspettavano per camminare con loro, così come abbiamo fatto noi in Libano”. E a chi reagisce con atteggiamenti di chiusura, in Italia e non solo, come suggerisce anche il risultato delle elezioni in alcuni Laender tedeschi, Matassoni risponde con pacatezza: “La diffidenza è una reazione normale, di fronte a chi non conosci. Ma ricordiamoci che queste persone non hanno scelto di lasciare il loro Paese, sono state costrette a farlo. Noi possiamo accompagnarle in questo nuovo percorso, facendole sentire a loro agio. Abbiamo chiesto loro cosa si aspettano dall'Italia. Ci hanno risposto che desiderano solo una casa, un lavoro, vedere i loro bambini che vanno a scuola. Una vita normale”.

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