“Vorrei rimanere me stesso…”

Lungo colloquio di mons. Tisi con la nostra redazione: “Cambia il servizio, non la persona. Semmai vorrei migliorare qualche aspetto negativo”

La nomina: “Non ho paura a dire che ho avuto paura”

L'aiuto: “Ringrazio mons. Zadra che mi ha rasserenato”

Il problema: “La solitudine dell'uomo contemporaneo”.

L'infanzia: “La morte di mio padre ha segnato la mia vita”

Mons. Lauro, il grazie a mons. Bressan e il suo ingresso si sono inseriti nel periodo pasquale, cuore dell’anno liturgico. Come “interpreta” questa sovrapposizione?

Io stesso ho voluto che fosse mons. Bressan a presiedere la Pasqua perché ritengo che sia il più bel grazie per quello che ha seminato in questi 17 anni all’interno della nostra Chiesa.

Il suo carattere si distingue per la tanta positività rispetto alle persone, alle situazioni e ai problemi. Questa attitudine gli viene dalla Pasqua, che è proprio la festa del positivo, del più che vince sul meno. In questi anni mons. Bressan ha regalato alla comunità cristiana speranza, pazienza, non fretta di decidere; è tipico di chi vede le persone prima ancora delle organizzazioni, di chi è preoccupato che cresca un corpo ecclesiale piuttosto che decisioni pratiche. Con uno sguardo aperto ai confini del mondo.

Lei sarà ordinato ancora nell’Ottava di Pasqua…

Ho approfittato della Domenica della Misericordia, che per la liturgia è ancora piena Pasqua, proprio perché questa vorrebbe essere la cifra sotto cui metto il mio ministero. Quello che vorrei sottolineare della misericordia, in sintesi, è quello che ho messo a suo tempo sul mio santino della Prima Messa dove ho riportato una frase di sant’Ignazio di Antiochia che dice: ”Porta il peso di tutti come il Signore porta te”. E' quello che vorrei fare all’interno di questi anni di episcopato.

Come ha vissuto interiormente il periodo dell’annuncio all’ordinazione?

In una prima fase con molta paura e preoccupazione. Non ho vergogna a dire che ho paura, sarebbe incosciente assumersi una responsabilità tale senza paura. Poi il mio carattere accentua questo sentimento. Sono un uomo che ha paura. E posso dire a tutti quelli che hanno paura: avete un vescovo che ha paura e il Signore lavora anche con chi ha paura!

Ma dopo i primi giorni, dove ha trovato sostegno…

Sono stato aiutato da mons. Giuseppe Zadra (l’ex vicario generale, n.d.r.) ad entrare in una prospettiva di abbandono nelle mani dell’azione di Dio. In questi anni silenziosamente mi ha sempre sostenuto con il suo stile straordinario di discrezione. I giorni in ritiro a Grottaferrata mi hanno aiutato a rasserenarmi. Da uomo saggio e abitato dallo Spirito Santo, mons. Zadra è riuscito a darmi quegli spunti che mi hanno portato ad un atteggiamento via via più sereno.

La sua biografia. Quali elementi familiari e “valligiani” l’hanno “costruita” di più come cristiano?

Devo dire che sono molto legato sia al mio paese natale che alla mia valle. Non mi sono mai staccato da lì, vi ho pure mantenuto la residenza. Dalla mia valle ho ricevuto quella voglia di andare avanti nelle difficoltà, la tenacia e un modo di ragionare e procedere che va per paradossi: usiamo le parole forti, talvolta uno stile drastico, diretto, schietto, tagliente. Dalla mia valle, segnata dalla montagna e dall’emigrazione, ho imparato che si possono trasformare le difficoltà in una grande risorsa e forse anche lo sviluppo turistico è frutto di questo.

Ma anche una capacità di tener duro quando la strada si fa in salita.

E gli elementi familiari?

La mia vita è stata segnata da bambino dalla morte di mio padre, rimasto vittima di un incidente. Un’esperienza che mi ha permesso allo stesso tempo di costruire con i miei familiari un rapporto stretto, perché ci ha unito molto, soprattutto con la mia mamma. A 50 anni dalla morte di mio padre questo rimane l’evento più significativo della mia esistenza e nel bene e nel male ha segnato quello che sono oggi.

Che cosa cambierà nella sua vita è facile immaginarlo, che cosa invece resterà fisso, fondante, forse rafforzato?

Vorrei rimanere me stesso: io sono don Lauro. Cambia il servizio, non io. Il mio intento è di mantenere quello che sono magari, migliorare qualche aspetto negativo (sorride). Vorrei non essere modificato dal ruolo. Sarebbe opportuno che rimanessi quello che sono, altrimenti c’è qualcosa che non funziona.

E’ contento di essere dentro questa Chiesa, perché?

Sono proprio contento perché ho potuto conoscerla frequentando le comunità. Io conosco nomi e cognomi di tanti dei nostri paesi. Il servizio di questi anni mi ha permesso di entrare in stretto contatto con le persone concrete. E lì vedo questa Chiesa bella di cui sempre parlo, che magari a livello mediatico non riesce a passare. Penso al volontariato, alla capacità di prossimità… poi forse da buoni trentini non sappiamo vendere le nostre risorse. I territori hanno tanta gente bella. E poi vorrei che non si parlasse di me, deve emergere la Chiesa non don Lauro. Il mio è un servizio, come quello di un padre di famiglia ad esempio, non un potere. Nel Dna del cristiano c’è l’essere in comunione, se c’è un solo uomo al comando è un disastro.

Quali problemi intravvede come emergenti?

Vedo il problema dell’annuncio e della narrazione di Dio. E’ il vero gap ecclesiale. Noi parliamo di Dio con categorie che attingono al mondo della filosofia e della metafisica, dobbiamo invece parlare di Dio in modo narrativo, esistenziale e concreto. Io penso che un punto di riferimento potrebbe essere don Tonino Bello. Ha bucato lo schermo italiano non tanto per la sua organizzazione ecclesiale ma perché era un cantore di Dio meraviglioso; sapeva parlare di Maria come mai ho sentito nessun devoto parlare di Maria in termini esistenziali. Questa per me è la questione di fondo. Se noi riusciamo a dire Dio come va detto “in Gesù Cristo” allora cominciamo ad affrontare il problema dell’uomo contemporaneo.

Il principale è la solitudine drammatica in cui stiamo vivendo, che è figlia di una declinazione della vita dove le persone vengono messe in concorrenza e non vengono percepite come promessa. Con Gesù Cristo si possono far tornare i volti.

Tra le attese raccolte ed espresse su Vita trentina l’attenzione alle relazione, ai laici e alla donna. Sono maturati i tempi per una valorizzazione piena delle donne? Siamo sempre in ritardo su questo terreno. Da parte mia c'è l’impegno di dare loro maggior spazio nei ruoli decisionali, di inserirle dentro le nostre strutture. Mettersi in ascolto dell’universo femminile nel guardare la vita offrirebbe un contributo diverso all’agire ecclesiale. L’approccio della donna alla realtà è di tipo relazionale e narrativo, il più vicino al Vangelo, a Gesù Cristo. Questa potrebbe essere la chiave per reinterpretare le nostre organizzazioni, che a volte possono essere fredde proprio perché manca un passaggio relazionale.

Fra le attese particolari quella di una Chiesa che sappia insegnare il silenzio, creare luoghi di educazione al silenzio……

E’ una vera emergenza umana. E' sempre stata una dimensione fondamentale nei percorsi ecclesiali, quella di creare spazi di ascolto e di silenzio. Penso che su questo fronte dobbiamo fare molto di più. E’ nel silenzio che possiamo riprendere in mano la cifra dell’umano e senza il silenzio non si riesce a declinare una relazione che possa definirsi pienamente umana.

Cosa si aspetta dalla giornata del 3 aprile?

Non vedo l’ora che passi….(qui don Lauro sorride, n.d.r.). Spero che sia un giorno in cui la nostra Chiesa emerga per la sua bellezza, non tanto una giornata concentrata su don Lauro, ma attorno ad una Chiesa che prega e affida il suo pastore nelle mani di Dio. E’ anche per questo che ho pensato di farmi accompagnare dai giovani. Per dare un segno di apertura chiara al loro mondo, alle loro priorità perché li ritengo i veri emarginati e poveri del nostro millennio: molti sono costretti a trasferirsi all’estero per mancanza di lavoro. E’ da loro che dipende il nostro futuro, un cristianesimo che perde i giovani è morto.

Come vede la presenza dei vescovi missionari?

Saranno presenti tutti all’ordinazione. Un bel regalo! Dice di una comunione all’interno della nostra Chiesa trentina ancora una volta molto bella e come dirò quel giorno : veniamo tutti dallo stesso grembo, siamo tutti fratelli. Ci sarà anche mons. Bregantini, che in una commovente lettera mi chiede di proseguire la collaborazione e io ne sono felice, anche perché dalla sua straordinaria testimonianza abbiamo molto da imparare. Una Chiesa che non ha più un missionario vuol dire che sta morendo.

Cosa vorrebbe dire all’uomo di passaggio che si metterà dietro ad una colonna o sotto al maxischermo di piazza Duomo, agli “esclusi”?

Ringraziamo chi non crede o fa fatica nella fede perché diventano per noi un pungolo ad uscire. La Chiesa non esiste per guardarsi negli occhi ma per andare incontro a chi attualmente non si sente rappresentato da quel percorso. Sono uno stimolo ad ascoltare le loro domande, anche le più scomode, che possono portare ad una conversione ecclesiale, un interrogativo per ripensare le nostre azioni.

Un pensiero per Vita trentina e radio InBlu.

In questi anni ripetutamente ho sempre espresso la grande stima e fiducia nei nostri media diocesani e soprattutto ho apprezzato che non rimangono ad intra, apprezzo il vostro lavoro perché credo che – ed un po’ di orgoglio trentino non guasta – siamo una realtà rispetto ad altre Chiese un passo avanti. Non un bollettino ecclesiale, bensì il tentativo di dialogo con la realtà che sta fuori dai nostri confini. Il ruolo dei nostri media deve rimanere quello di finestre sul mondo.

a cura di Antonella Carlin

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