Il grande scontro

[1Re 17,17-24; Galati 1,11-19; Luca 7,11-17

Nessuno dei nostri cortei funebri, stando al vangelo di questa Domenica, sperimenta una svolta così inattesa come accadde quel giorno a Nain; possiamo dire che la morte regna sovrana come se nulla, mai, avesse incrinato il suo potere Non passa giorno, infatti, che le cronache non ci imbandiscano notizie di lutti provocati da incidenti (d’estate, soprattutto), da malattie che non perdonano, da violenze gratuite ed efferate, o da azioni di terrorismo. I cortei di morte, insomma, sono all’ordine del giorno e, guarda caso, mai che intervenga qualcuno ad arrestarli richiamando alla vita la persona che la morte ha portato via. Mai. D’altronde, ciò che accadde quel giorno a Nain fu un segno, spettacolare e inaudito fin che si vuole, ma soltanto un segno: quel ragazzo non fu risuscitato, fu semplicemente richiamato alla vita. Questo però fu sufficiente a far pensare che il potere della morte probabilmente non è più assoluto e incondizionato come s’è sempre creduto: ora c’è Qualcuno più forte. Qualcuno che si offre alla nostra Fede come il vincitore e, insieme, il primo frutto della sua vittoria: Gesù, il Signore risuscitato. Non promette di evitarci la morte, né di farci semplicemente rivivere. Ci parla di Risurrezione, lui che è il primo, la primizia dei risuscitati. Risuscitare è molto più che risvegliare morti alla vita. “E’ più importante risuscitare chi poi vivrà per sempre, che non risvegliare alla vita chi un giorno o l’altro morirà di nuovo”, predicava ai suoi tempi Agostino. Un segno, soltanto un segno, fu quello che accadde a Nain. Ciononostante val la pena soffermarsi su alcuni particolari di quel fatto per accorgerci di quanta passione per la vita sia capace Gesù Cristo, e per comprendere di conseguenza perché a Dio stia tanto a cuore risuscitare i suoi figli. Non tutti i cortei della morte sono eguali. Questo che ci descrive il Vangelo è più drammatico dei soliti: veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova. E’ morto il figlio, giovane, e sopravvive colei che lo ha generato: questa madre, che genera e sopravvive al figlio che ha generato, rappresenta l’umanità tutta quanta, che continua a far sorgere la vita, ma ogni vita prima o poi sconfina inevitabilmente nella morte. Ed è una madre “vedova” oltretutto, quindi priva di amore e senza difesa: povera, di una povertà che è iscritta fin nel suo codice genetico. “Il Signore ne ebbe compassione e le disse: Non piangere!” E’ quella compassione che (stando al significato biblico) sconvolge “dentro”: “viscerale” nel vero senso della parola. Si commuove Gesù, come alla tomba di Lazzaro, suo amico, dove alla commozione si uniranno le lacrime. Il fatto che egli si trova davanti, è senz’altro toccante e lui è senz’altro uno che si lascia toccare;  ma lo sgomento che prova è più profondo del nostro, è diverso. La morte di quel ragazzo, di quel figlio unico, è sintomo di una sorte drammatica e generale, che solo lui, il Signore della vita, percepisce in profondità; per lui (come si diceva) quella madre vedova è l’espressione dell’umanità tutta intera, soggetta e condizionata dal potere della morte. “Non piangere!”: se lo dice, non è perché in questi casi occorre pur dire qualcosa, ma perché è l’unico che lo può dire; così come lo dice a Cafarnao, in casa di Giairo, alla gente che piange per la morte di una bambina (“Non piangete!” cfr. Mc 5), o come lo dirà a Maria Maddalena nel mattino della risurrezione: “Donna, perché piangi?” (Gv 20). “Accostatosi, toccò la bara; al che, i portatori si fermarono”. Il corteo della morte si arresta dinanzi alla compassione del Signore della vita, perché un giorno la compassione diventerà semplicemente “Passione”, croce, e lì il potere della morte sarà sconfitto alla radice. “Giovinetto, dico a te, alzati!”. Parlare ad un morto – per noi uomini – è cosa molto patetica, certamente, ma anche insensata perché non ha nessun effetto. A meno che non sia lo stesso Signore della Vita a pronunciare quella parola. “Il morto si levò a sedere e cominciò a parlare”. Ecco l’immagine della morte sconfitta: il catafalco della morte diventa un trono; anziché giacervi sopra inerte, l’uomo vi sta seduto in posizione regale e riprende a comunicare con le persone che gli stanno accanto: “cominciò a parlare”.  L’individualismo, che diventa mutismo e incomunicabilità, fa sempre parte della coreografia della morte; il comunicare invece, o meglio, l’essere in comunione, è segno di una vita ricuperata, ridonata. “Ed egli – cioè Gesù – lo restituì a sua madre”. Come se quel figlio le fosse stato rapito, come se ne fosse stata defraudata. Ma ritorniamo a quella madre: è l’immagine – si diceva –  dell’umanità intera, priva di legame sponsale che le consenta di generare per la vita. E allora Gesù è quel Dio che si fa partner-sposo di questa umanità e fa di lei – madre di mortali – la madre dei viventi. Ora può generare non più per la morte ma per la vita: Gesù è qui a guarire, a sanare la vita alla sorgente. Ed è dono, inestimabile dono la sua presenza. Ecco il senso di quelle parole: “Ed egli lo restituì a sua madre”. “Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante”. Questa conclusione provochi e dia vigore alla nostra fede proprio nel mondo d’oggi: ci faccia testimoni convinti di un Dio che si è fatto vicino, portatori non di consolazione a buon mercato, ma di speranza viva: la morte, nonostante le apparenze contrarie, non è più l’unica sovrana. E’ Gesù l’unico, misericordioso Signore della Vita.

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