La scuola che sogniamo

Non lasciare indietro chi fa più fatica, ma non perdersi le eccellenze. Il dirigente Erik Gadotti racconta il progetto D4: al centro dell’azione educativa la promozione di valori condivisi

“Il modello di insegnamento è semplice: una comunità in cui studenti e professori lavorano insieme per risolvere problemi complessi che aiutano a crescere come persone, a costruire benessere nella scuola, a valorizzare il territorio e aprirsi al mondo”

In questa scuola non c’è la campanella a scandire il tempo e nelle aule, al posto dei banchi, ci sono grandi tavoli attorno a cui gli studenti lavorano in gruppo per risolvere problemi concreti; non si ragiona per materie ma per progetti interdisciplinari, e nei gruppi si affiancano ragazzi di età diverse, imparando 10 volte tanto. Questa scuola è davvero degli studenti, che imparano a prendersi cura l’uno dell’altro oltre che della struttura che abitano, occupandosi, per esempio, delle pulizie nelle classi e della gestione dei server informatici. Una scuola in cui ci sta il ragazzino autistico grave e lo studente universitario in dialogo con le aziende: ognuno cresce nel suo personale percorso verso l’eccellenza, secondo la sua vocazione.

Un’idea di scuola tutta nuova, che da qualche anno, all’Istituto Pavoniano Artigianelli per le Arti Grafiche di Trento, è già realtà. Il progetto si chiama D4 e nasce dalla collaborazione, iniziata 7 anni fa e che continua tutt'oggi, con il dipartimento di Scienze cognitive dell’Università di Trento, e in particolare con il team della dottoressa Paola Venuti (ODF lab).

Un sogno e una sfida

Come ogni progetto che sappia essere davvero innovativo, anche questa piccola rivoluzione nasce da un sogno: a raccontarcelo è Erik Gadotti, dirigente visionario alla guida degli Artigianelli: “Ci chiedevamo: come si può cambiare la scuola perché riesca a trasmettere più competenze ai ragazzi, e al tempo stesso riesca ad essere davvero inclusiva?”. La scuola di oggi, infatti, taglia fuori una buona fetta di ragazzi: in questo sistema standardizzato e omologante, legato ad un modello di società industriale, non c’è spazio per la diversità e le specificità. “È una scuola che va bene per tutti ma non va bene per nessuno”.

Ecco la sfida: elaborare un modello educativo più efficace per favorire l’apprendimento dei ragazzi. “Ho sempre creduto che la scuola professionale di qualità potesse diventare la punta di diamante di un sistema scolastico per la possibilità, intrinseca nella sua struttura, di poter sviluppare le capacità cognitive attraverso la risoluzione di problemi reali”, spiega Gadotti, ingegnere e psicologo. Da qui nasce il modello D4, frutto di anni di ricerca e sperimentazione. “Abbiamo studiato i modelli scolastici più innovativi che ci sono al mondo e, prendendo il meglio da ciascuno, ne abbiamo elaborato uno che fosse ancorato alla nostra cultura e contestualizzato nel nostro territorio”. La prima scoperta è stata che tutte queste esperienze positive avevano “un’anima”, cioè un forte attaccamento a dei valori di riferimento. “Anche noi siamo partiti da lì: i pilastri su cui fondare la nostra idea di scuola. Nascono dalla nostra tradizione cattolica ma sono bellissimi valori laici”.

Valori condivisi

La trascendenza: la capacità di pensare oltre, di guardare oltre se stessi, di chiedersi “per quale ideale mi gioco la vita?”. La differenza: ognuno è portatore di un pezzetto di verità; riconoscere e valorizzare la propria e altrui specificità è la chiave del successo. La libertà di apprendimento, cioè la possibilità di scegliere la propria strada e trovare il proprio posto nel mondo, che si sposa con un altro caposaldo, la responsabilità, che porta a chiedersi sempre: quello che faccio contribuisce a costruire il bene mio e degli altri? Infine il gruppo: collaborare è sempre più produttivo che competere.

Questi cinque valori, condivisi da professori, studenti e personale scolastico, si incarnano nella concretezza della vita scolastica. Nello studio della letteratura così come nella progettazione grafica, si impara innanzitutto a scoprire se stessi e aprirsi gli altri, in un cammino di scoperta della propria identità – nella sua dimensione spirituale, emotiva, corporea e cognitiva – che porta a spostare lo sguardo sugli altri. Così i ragazzi di quarta fanno lezione in seconda o in terza, mentre, accanto agli educatori, un gruppo di 25 ragazzi viene formato per prendersi cura dei ragazzi disabili della scuola. “Tutti – spiega il dirigente – lavoriamo per far crescere la nostra comunità. In orario scolastico, per esempio, i ragazzi realizzano video per la promozione dell’istituto, seguono i social della scuola, gestiscono i server informatici dell'istituto”. Insomma, imparano a costruire comunità, in uno stile che poi viene facile portare anche fuori, e che invita ad amare, vivere e sviluppare il proprio territorio. In rete con tante realtà trentine, dalle istituzioni alle cooperative sociali alle imprese (per cui gli studenti realizzano spesso commesse esterne), la scuola spinge ad impegnarsi in prima persona allo sviluppo del tessuto produttivo locale. Come cerchi concentrici che si allargano verso l’esterno, dalla persona, al posto in cui è, al territorio, si arriva all’ultima dimensione: aprirsi al mondo. L’Istituto pavoniano investe molte risorse nell’apprendimento delle lingue e nella formazione professionale all’estero: attraverso partenariati strutturati con realtà scolastiche e aziendali europee, i ragazzi si abituano a mettersi alla prova in contesti nuovi, formandosi una mentalità aperta.

Un nuovo modo di fare scuola

Il sogno, i valori, la libertà, la comunità… come riuscire a non farli restare solo belle parole? “Abbiamo dovuto cambiare totalmente il modo di fare scuola”, spiega Gadotti, “introducendo l’approccio – molto più esperienziale – chiamato Project Based Learning”. Il PBL è una metodologia didattica basata sulla risoluzione di problemi reali complessi: “Si tratta sostanzialmente di una modalità di lavoro per progetti, in cui i ragazzi, lavorando in gruppo e insieme ai professori, apprendono risolvendo problemi, pratici o teorici, che collegano diverse materie”. Non si parte quindi dalla disciplina (l’italiano, la matematica, eccetera) ma dalla concretezza del problema che si ha di fronte, che richiede di mettere in campo competenze interdisciplinari, elaborare strategie creative, fare scelte. Un metodo che attira l’attenzione di tanti istituti professionali, che da tutto il mondo giungono a Trento per conoscerlo.

Tutto molto bello, si dirà, ma gli studenti alla fine imparano? “I dati parlano chiaro: la metà di loro alla fine del quinquennio si iscrive all’università, tantissimi all’estero; tutti gli altri trovano lavoro. Non solo questo modello è più equo, ma permette di essere più preparati, è un metodo inclusivo e che allo stesso tempo valorizza le eccellenze” assicura Gadotti. “Ed è anche economicamente più sostenibile”.

Un metodo che non esclude

Nell'inclusione l'Istituto Artigianelli rappresenta da tempo un'eccellenza, con i percorsi individualizzati per i ragazzi con bisogni educativi speciali o il progetto di recupero e reinserimento in un percorso di successo di un gruppo di ragazzi che avevano abbandonato la scuola. Il progetto D4 funziona anche e soprattutto con chi ha difficoltà, i ragazzi che la scuola di solito mette all'angolo perché rallentano la crescita degli altri: “Certo, non li porterà a fare l’università all’estero, ma ad essere eccellenti per quel che sono loro”.

Lo hanno chiamato D4: dream, design, develop, deep. Ovvero: sogna, ma non rimanere un sognatore astratto, progetta quel sogno e realizzalo. E fallo con “profondità”, consapevole dei bisogni e delle risorse, raccogliendo la sfida di migliorare il mondo. “È questo che cerchiamo di fare anche attraverso le ore di religione o le proposte spirituali nei momenti forti come Avvento e Quaresima: cerchiamo di far riscoprire loro la bellezza, magari là dove non si aspettano, per esempio fermandosi un momento a pregare in una chiesetta durante una gita in montagna… ognuno a suo modo”.

Tutto questo ha richiesto uno sforzo notevole da parte del corpo docenti, oltre ad un inevitabile ripensamento degli spazi: ambienti più grandi, adatti ad ospitare più isole di lavoro, ognuno con la sua strumentazione tecnologica d’avanguardia. E già si pensa alla nuova mensa, che aspira ad essere anche ristorante gestito dai ragazzi con bisogni educativi speciali, come già avviene per il bar. Il sogno continua…

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