Calgary, città senza muri in cerca di identità

La città è enormemente cresciuta negli ultimi decenni, grazie a una forte immigrazione da tutto il mondo

Calgary (Canada), settembre 2016 – Sono venuto in Canada per cambiare aria, come si dice. Ho scelto una parrocchia di Calgary che mi ha dato ospitalità per alcune settimane. La città è pulita, organizzata, vivibile: un contesto ideale per chi vuole “staccare” e rilassarsi. Merito dei cittadini, ovviamente. Dopo un po’, tuttavia, le linde casette del Canadà cominciano a delineare un mondo di solitudini, vinte da improbabili piazze costituite da grandi centri commerciali nei quali la gente si riversa alla ricerca di contatti umani. In alternativa, puoi trovare le parrocchie. Sono realtà che i fedeli sostengono con generosità e i preti non hanno problemi economici. Solo le “missioni” del gelido Nord ricevono contributi di solidarietà dalle diocesi più ricche del Sud.

Vita di parrocchia

La parrocchia che mi ospita porta il nome di “Maria, madre del Redentore”. Gli immigrati italiani venuti qui negli anni sessanta hanno fatto molto per avere uno spazio di fede su misura: un prete che parli italiano, una sensibilità pastorale “mediterranea”, un culto che non trascuri i santi della propria terra di origine. Gli immigrati provengono soprattutto dal Mezzogiorno, ma non mancano veneti e friulani. La chiesa parrocchiale risale ai primi anni ottanta. Quella più “antica” (e lo è in una città nuova come Calgary) è stata venduta per mancanza di parcheggio; un dettaglio assolutamente non trascurabile da queste parti. Cattolici di lingua italiana e di lingua inglese avevano ottenuto di costituire un’unica comunità parrocchiale. Da alcuni anni si è aggiunta la comunità ispanica, proveniente dai paesi dell’America Latina. I fedeli fanno anche 20-30 km per raggiungere la loro chiesa. La parrocchia affronta dunque una complessità sociale evidente, accentuata dal fatto che gli italiani sono sempre più anziani, i loro figli sono disseminati in altre parrocchie e progressivamente assimilati alla lingua dominante. Risulta sempre più numerosa e vivace la componente ispanica, dai tratti religiosi spiccati caratterizzati da una spiritualità comunitaria. Il parroco è un prete della comunità di Padre Monti e proviene dall’India. Si chiama Shibu, ha quarant’anni, parla le tre lingue, svolge un’intensa azione pastorale dosando un programma non facile per soddisfare tutti. Con lui opera un confratello, Edwin, più giovane, proveniente dal bilingue Camerun (francese e inglese). In Guinea Equatoriale ha imparato spagnolo ed ora corre a grandi passi per apprendere l’italiano. La comunità si completa con Ugo, il più anziano dei preti, di origine italiana, missionario in Canada da quasi mezzo secolo.

Tornino i volti

Dai parrocchiani raccolgo testimonianze significative. I nomi sono di fantasia. C’è Gino, novantenne, che viene dal bellunese. A diciott’anni fu rinchiuso in un campo di concentramento in Germania e quando fu liberato tornò a casa con due grossi problemi: imparare a vivere e imparare a perdonare. Avrebbe ammazzato qualsiasi tedesco che incontrava, ma confessa di essersi salvato solo attraverso il perdono. Avvenuto dopo alcuni anni. Oggi è una persona serena e, qui a Calgary, ha molti amici tedeschi che giocano a bocce con lui. Incontro Erina, che viene in parrocchia per la prima volta. Con la sua famiglia è emigrata dall’Albania verso l’Italia, per poi trasferirsi in Canada. Conoscendo la realtà albanese capisco che “dietro” c’è la catena di violenze della vendetta del sangue, tragica lotta tra famiglie che minaccia l’esistenza dei maschi. Mi chiede se posso aiutare l’emigrazione di un familiare adolescente, oggi a rischio di vita. Erina ha un animo sensibile e vuole contrastare questa cultura atavica che fatica a spegnersi. È rumena, invece, Anghela. Per raggiungere il fidanzato connazionale ha lasciato Firenze per trascorrere con lui le ferie estive. In Italia insegna religione cattolica. Qui si scontra con un modello sociale troppo anonimo rispetto a quello italiano (e rumeno) e nutre dubbi sul suo futuro da queste parti. Teme un incerto inserimento professionale perché con la crisi del petrolio la Provincia canadese dell’Alberta deve gestire una preoccupante disoccupazione. Ci sono anche altri motivi che incrinano il rapporto con “lui” e condivide con me la sua sofferenza. Giuseppina e Bruno sono due anziani coniugi veneti che hanno realizzato una propria attività in campo alimentare. Hanno lavorato duro. Li incontro al ristorante del Centro italiano, dove mi siedo al loro tavolo per fare quattro chiacchiere assieme. Ci raccontiamo barzellette. Alla fine mi aprono lo scenario del rapporto con i figli: “Se li invitiamo noi arrivano qui al ristorante anche in trenta, con coniugi e figli. Diversamente non li vedi mai”. Da altre testimonianze colgo che questa amarezza è diffusa. I genitori, che hanno sofferto l’emigrazione con i problemi connessi, ad un certo punto non sono capiti dai figli. Con l’aggiunta del dispiacere per l’allontanamento di molti giovani dai valori religiosi, che gli anziani sentono ancora come vivi e necessari. E poi c’è la storia di Carlo, che è andato presto in pensione perché non ne poteva più. Lavorava per una compagnia di estrazione del petrolio (dice di aver fatto più di cento “buchi” nella terra) e ritiene che la logica del profitto sia aggressiva nei confronti del creato. Lamenta una pratica industriale devastante. Mi sembra di ascoltare papa Francesco quando parla della terra, nostra casa comune. Carlo ha vissuto questa realtà per anni ed era arrivato alla convinzione di non poter fare nulla per cambiare. Meglio andare in pensione e coltivare il radicchio.

Orsi, arte e carisma

Nel Parco nazionale di Banff, sulle Montagne Rocciose, vivono gli orsi Grizzly e in zone di volta in volta indicate è obbligatorio camminare nei boschi in gruppi di almeno quattro persone. Altrimenti si viene multati fino a 25mila dollari canadesi. La cosa mi fa pensare all’Adamello-Brenta, dove il dibattito sugli orsi è sempre di attualità.

Nella chiesa parrocchiale di Calgary ho trovato tre affreschi di Trento Longaretti, noto artista bergamasco che il 27 settembre compie cent’anni. Dal nome si capisce che il padre aveva forti sentimenti patriottici. Emerge una grande “Ultima Cena”, voluta dagli italiani di quarant’anni fa. Avverto che la consapevolezza di custodire un’importante opera d’arte si va offuscando nella parrocchia e la mia proposta di un evento celebrativo raccoglie un discreto interesse. Proiettiamo il nuovo docu-film “Memento homo”, gentilmente concesso dalla società produttrice di Bergamo. Tratta la straordinaria vicenda umana di Longaretti. Il suo non è un “secolo breve”, ma tutto intero, perfino a cavallo di due millenni. Ha molto da raccontare di sé e della propria arte, con umile sapienza, toccando i sentimenti spirituali di tutti. L’evento ha svolto la sua funzione e i fedeli di lingua italiana si sentono fieri delle proprie origini.

Chi scrive questi appunti di viaggio non è prete e quindi la sua presenza in parrocchia risulta meno visibile. Un consacrato laico, del resto, non presiede la Messa o altri riti liturgici. La sua è una vocazione poco conosciuta, sebbene siano molti i santi di questa “categoria”. Il 22 settembre si celebra la memoria del beato Luigi Monti, educatore e infermiere, consacrato laico fondatore di una comunità religiosa. In un incontro con i parrocchiani illustro questo beato nel contesto della vita ecclesiale dell’Ottocento, del quale “è una delle figure più interessanti” (card. Carlo Maria Martini). Ci ricorda quanto valga un carisma, anche in parrocchia. La forza di un carisma permette di avere un sensore in più: incroci i volti e leggi subito l’affiorare di un bisogno o l’appello ad ascoltare una sofferenza interiore. Un carisma, se c’è, lo senti. E si vede.

Ruggero Valentini

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