Una “Cucina” affiatata

Il debutto della neonata Compagnia regionale diretta da Marco Bernardi: lo sfondo proletario di un lavoro corale. Ed un ritmo che rompe gli schemi

Prospettiva quasi certa. Alla fine della quarantina di repliche previste gli attori già complessivamente filiformi, (tolte un paio di eccezioni “di peso”), rischieranno l’estinzione fisica.   Per l’inconsueto esercito di interpreti de “La Cucina” – il lavoro di Arnold Wesker con cui Marco Bernardi ha battezzato martedì sera nel debutto al Cuminetti la neonata Compagnia regionale di prosa – il movimento è un delirio.  E’ un crescendo ginnico di corse e di battute, a forte rischio d’inciampo. E’ un forsennato groviglio di “ordini” – la platessa, i nodini – tra – e di “disordini” social- sentimentali. E’ un intreccio di intrecci che porta al limite la capacità di concentrazione di chi sta sul palco e che serve  porzioni di inquietudine ad un pubblico catapultato nel caos. Ma mai inquietudine fu meno sana. Mai imbarazzo da frenesia del quotidiano occupazionale fu meno salvifico. E’ il lavoro, baby.

 E’ il lavoro scenicamente esasperato, ma vero. Ed è  questa verità che “La cucina” butta addosso a chi l’avesse dimenticata votando per un mondo irreale sui telecomandi dei talent culinari in Tv.  Il lavoro de “La cucina” racconta i sapori – più aspri che gustosi – di una “fabbrica di piatti” . E’ una fabbrica infatti, altro che talento in libertà da telecamera, il ristorante inglese del ’56 riproposto in teatro.

Un  luogo di sapore e di odore. L’odore è il sudore: un lago a fine giornata. I sapori sono quelli – forti o deboli poco importa – di un’umanità proletaria: abita e anima una cucina dove bolle un labirinto di sentimenti. Sono sentimenti tanto semplici quanto dirompenti: gli amori acidi come una minestra rigettata da un cliente, le amicizie in bilico perenne tra onestà ed invidia, la solidarietà intermittente di chi condivide lo stress ma non mette in comune l’antidoto per limitarlo.

La cucina è un mondo,  anzi tanti mondi. Cozzano l’uno contro l’altro nell’equilibrio instabile delle culture in rotta di collisione, delle lingue che s’adattano ma stentano a fondersi. Un mondo di aspettative, di sogni e di incubi. Di illusioni e, soprattutto, di disillusioni. Un mondo, insomma, di sopravvivenza senza idillio. Sopravvivenza spicciola, normalità faticosa. Un “ieri” – la didascalica ambientazione inglese voluta da Bernardi – che se fosse un “oggi” sarebbe – te lo do io il progresso – ancora peggio: sfruttamento multietnico ed evanescenza dei diritti.

 E’ una cucina ricca quella allestita dalla compagnia regionale. E’ ricca di un ritmo esagerato che però, e finalmente, rompe gli schemi. Il ritmo distoglie l’attenzione dal singolo attore – ma di bravi nei 25 in scena ce ne sono più d’uno – per indirizzarla al collettivo. Alla coralità delle azioni, delle emozioni.

Se lo sfondo è proletario – (che si badi, non è un’offesa o una definizione fuori moda) – la scelta artistica può e deve essere coerentemente democratica: qualche figura ovviamente  più al centro di altre, ma nessuna figura al centro senza le altre.

E così ecco un cast – nato dalla selezione tra cento aspiranti – che fa dell’entusiasmo, della freschezza e della convinzione un dato comune. Certo, cercando il pelo si potrebbero sottolineare acerbità ed asperità da debutto. Ma chisseneimporta.

 Certo, il proletariato non è materia da mitizzare. E giustamente la commedia di Wesker/Bernardi non lo mitizza quando sottolinea anche le sue contraddizioni tra eccessi  di furberia e accenni di inconsapevole filosofia, o di poesia. Ma nella cucina, almeno in teatro,  il proletariato torna per una volta in primo piano. E tanto ci basta per azzardare che la realtà ha ancora qualcosa da raccontare.

 Ecco, i racconti. Nella cucina dei 25 tra cuochi, sguatteri e cameriere se ne abbozzano tanti. Ma tanti occorre immaginarli: il che è un bene. Ma un racconto è nitido: è il racconto di una compagnia tanto numerosa quanto felicemente affiatata nel rapporto tra attori navigati e all’inizio della navigazione. Anche questa è democrazia. Ed anche questa non è una brutta parola.

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