Castigo e colpa, sacrificio e carità

Ci sono concetti centrali, centralissimi, per la fede cristiana che non vengono più compresi

Leggo in ritardo la risposta di Piergiorgio Cattani al quesito posto da un lettore su “Dio che castiga”, nella quale, dopo una accurata premessa sul Dio secondo il testamento antico (Vita Trentina 19.12.2016), precisa ma non sviluppa il gesto di condivisione della condizione umana da parte di Dio, fino alla più disperata delle nascite e la più atroce delle morti di quell'uomo nel quale lo stesso Dio si è incarnato (et incarnatus est!).

Il rischio è in effetti di continuare a restare dentro la lettura antica del “sacrificio” riparatorio ricondotto oggi dagli stessi ebrei alla Sinagoga dentro la categoria profetica della Shoa, il sacrificio di tutto Israele, popolo di Dio.

In campo cattolico alcuni sacerdoti nella messa hanno cominciato a modificare in via di fatto la traduzione canonica del verbo “tradetur” da “offerto in sacrificio” in “consegnato”, così da liberare la condivisione della condizione umana da parte di Dio da ogni significato espiatorio, dentro la logica del Dio castigatore.

La testimonianza di Gesù infatti collega il “sacrificio” alla dimensione della carità, non alla logica della riparazione secondo la legge.

La questione posta dal lettore, con precisi riferimenti biblici, va quindi esplicitata, credo, nei suoi significati di superamento in Gesù del rapporto vetero testamentario colpa-sacrificio, per approdare più pienamente alla logica della carità, come sostanza stessa di Dio, nell'atto in cui si fa uomo.

In questa prospettiva, credo che si attenui la forma tridentina del credere – e questo forse è il significato anche della rarefazione dei preti – ma ne guadagna l'esperienza dello “Spirito che soffia dove vuole”.

E dentro questo soffio c'è, oggi, il prete che si fa “Rabbi”, cioè maestro!

Gianpaolo Andreatta

Caro Gianpaolo,

grazie della riflessione, a cui vorrei aggiungere alcune considerazioni. Personalmente starei attento ad evidenziare troppo la contrapposizione tra Antico e Nuovo Testamento quasi che ci fosse un modo diverso di intendere la fede. C’è un approfondimento, una mutazione di accenti, un compimento ma non uno stravolgimento. Ricordiamoci poi che, mentre gli ebrei possono fare a meno delle scritture “cristiane”, noi non possiamo rinunciare alla Bibbia ebraica! Qualcuno lo ha ipotizzato tanti secoli fa (Marcione), qualcuno sembra riproporlo oggi (Vito Mancuso) ma per fortuna la Chiesa ha ribadito sempre l’unicità dei due Testamenti.

Non mi risulta poi assolutamente che gli ebrei interpretino lo sterminio nazista in una logica “sacrificale”. Non sia mai! Tanto che non utilizzano mai il termine “olocausto” (troppo pregno di un significato religioso), preferendo invece la parola “Shoah” che vuol dire “annientamento”.

Non solo: bisogna tenere presente che ai tempi di Gesù in Israele esisteva il Tempio di Gerusalemme (dove avvenivano i sacrifici) e le sinagoghe sparse per ogni villaggio in cui si leggeva la Torah. Con la caduta del Tempio il Giudaismo è sopravvissuto grazie a questo legame con il testo biblico: i sacrifici espiatori erano scomparsi, il popolo non aveva più la terra; il fondamento diventava l’esecuzione dei precetti e lo studio della parola di Dio.

In un certo senso, parlando da storici, Gesù ha anticipato i tempi, chiudendo l’epoca dei sacrifici. Non è un caso che nessuna religione successiva (in primo luogo l’Islam) non abbia ripristinato questa pratica rituale – l’offerta degli animali – che permane solo nelle religioni più antiche del cristianesimo.

Per quanto riguarda il tema in questione ti consiglio di approfondire il pensiero del grande antropologo francese René Girard che si è soffermato molto spesso su tali problemi. Secondo la sua teoria, fin dai primordi dell’umanità, ogni società ha cercato un modo per arginare la violenza insita in essa. Una violenza che si auto alimenta attraverso la vendetta: un circolo vizioso che deve essere fermato, pena la dissoluzione della comunità stessa. Si cerca così il “capro espiatorio”, colui che, a livello mitico e simbolico (Girard direbbe “mimetico”), condensa e riassume tutta la violenza accumulata. Una volta eliminato, si torna alla situazione iniziale. Il ciclo si ripete e piano piano si ritualizza nel sacrificio che appunto si connette alla sfera del sacro. Il sacrificio – sia esso animale o umano – è cruento e violento proprio perché vuole rappresentare, trasfigurandola, la violenza originaria culminata nell’uccisione del capro espiatorio. Così avviene in moltissimi contesti religiosi. Il sacro dunque non può essere disgiunto dalla violenza.

Anche la visione biblica parte da questo substrato. Ma compie una riflessione, iniziata con il profetismo e culminata nella vita e nella morte di Gesù di Nazareth. La “vittima” del sacrificio non è il colpevole, ma l’innocente per antonomasia, che offre la sua vita non per placare una divinità assetata di sangue e neppure per porre un freno alla violenza, ma secondo una prospettiva “etica”, cioè per amore dei suoi amici.

Quindi più che una rottura con la prassi dell’Antico Testamento, in Cristo si porta a compimento un processo religioso più universale: la religione non è più legata a un sacro oscuro e violento, ma appunto a un Dio che prende su di sé la condizione umana. Dall’espiazione siamo passati alla condivisione. Certo, nel corso dei secoli, la Chiesa molto spesso ha travisato questo messaggio proponendo interpretazioni tenebrose e terrorizzanti di un Dio che vuole vittime. Per fortuna oggi abbiamo superato questi schemi.

Le tue osservazioni sono esatte. Viene da chiedersi però quanto le nuove generazioni capiscano o siano interessate al problema. Ci sono concetti centrali, centralissimi, per la fede cristiana che non vengono più compresi: peccato, salvezza, riconciliazione, redenzione. Eppure senza questi fondamenti l’impegno nel mondo per i cristiani è vago e inutile. Forse bisognerebbe confrontarsi di più su questi temi.

vitaTrentina

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