Sospesi tra Oriente e Occidente

Colpisce la forte partecipazione espressiva degli autori alle storie portate sullo schermo

Guardare ai Balcani, in particolare all’ex Jugoslavia ormai divisa in sette Paesi dopo le guerre degli anni Novanta, attraverso la lente di ingrandimento del cinema può forse aiutare a comprenderne qualcosa di più profondo che vada oltre le facili semplificazioni e gli stereotipi correnti che li identificano come terre magmatiche, con sistematicità soggette a ribollire, quasi uno spirito guerriero li pervadesse, ne rappresentasse il Dna, un atavico destino. Perché il cinema è, in qualche modo, uno specchio che può riflettere e restituire una o più realtà scrutandone i recessi più oscuri, i non detti, le pieghe, gli interstizi, arricchendo le prospettive di nuovi sguardi.

Già qualche settimana fa il Trieste Film Festival, allargato all’ultima produzione di tutta l’area centro-orientale europea, aveva scandagliato e portato in superficie sensibilità e percezioni multiple e sfaccettate. Nello scorso fine settimana (dal 23 al 26 febbraio) è stata Firenze, con il suo “Balkan Florence Express” – rassegna organizzata dalla sezione italiana di Oxfam (organizzazione internazionale non profit), alla quinta edizione e all’esordio nel cinema “La Compagnia” di via Cavour, recentemente restaurato – a mostrare al pubblico quanto probabilmente di meglio girato recentemente arriva da quelle terre tra lungometraggi di fiction e documentari. Anche grazie alla collaborazione con il festival del capoluogo giuliano con il quale la quattro giorni fiorentina sta mettendo a punto una partnership distributiva.

Un dato prevalente, sempre che sia possibile, è emerso dai 19 tra film e documentari proposti e cioè una forte partecipazione espressiva degli autori alle storie portate sullo schermo. Una polarizzazione di sentimenti “prepotenti”, dentro i quali si intuisce un dolore, una sofferenza, tra dolcezza e crudeltà, tenerezza e ferocia, mischiati ad uno humor nero quasi a stemperarne la nettezza, si trattasse di narrazioni di storie interpersonali che film con focus le conseguenze delle guerre che nell’ultimo decennio del secolo scorso hanno lacerato le coscienze e fatto deflagrare un Paese dove convivevano, pur con difficoltà, tante etnie, nazionalità e religioni. E’ di una rara potenza emotiva “Sick”, doc del croato Hrvoje Mabić con protagonista Ana, rinchiusa in un ospedale psichiatrico perché lesbica, e non nell’Ottocento, ma pochi anni fa; come altrettanto un pugno allo stomaco è “Amok” del macedone Vardan Tozija che, prendendo spunto dalla cronaca, “entra nelle catacombe di Skopje”, nell’orfanotrofio dove adolescenti vessati e abusati decidono di ribellarsi.

Il passato che non passa mai è tutto in “Death in Sarajevo” del premio Oscar (per “No man’s land”) Danis Tanović, amaro ritratto della Bosnia odierna, ma anche in “On the other side” di Zrinko Ogresta nel quale i segreti nascosti da vent’anni riemergono prepotentemente attraverso il filo del telefono, oppure in “A good wife” della star serba Mirjana Karanović che quasi assume su di sé, dolorosamente, le responsabilità della propria parte per poterne rinascere.

La serba Lidija Zelović, nel doc “My own private war”, si chiede il perché di quelle crudeltà, di guerre devastanti. E lo fa rivolgendosi ad amici e parenti. Trovandosi davanti un muro, alla mancanza di verità o, forse, ad una complessità dove ce n’è più d’una. Un intrico di sentimenti e risentimenti non ancora sopiti, sensazioni profonde e sofferenze, in terre sospese tra Oriente e Occidente che quasi sembra aspettino Godot, sapendo, o forse no, che non arriverà mai. Almeno per ora. E chissà per quanto ancora.

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