Giovanni Franzoni, un cattolico “marginale”

Con Papa Paolo VI condivideva l’assillo per una Chiesa aperta ai bisogni e alle contraddizioni della donna e dell’uomo contemporanei

Giovanni Franzoni è morto a Roma, la settimana scorsa, all’età di 88 anni. Era stato il più giovane “padre” conciliare partecipando alle ultime due sessioni dell’assise (in quanto Abate di San Paolo fuori le Mura era membro di diritto per antica usanza, equiparato ad un vescovo). Si batteva, già in quegli anni, per una piena realizzazione del Concilio, una Chiesa che cammina accanto alle inquietudini delle persone, l’apertura al mondo moderno, il superamento delle barriere ideologiche e per il pluralismo politico dei cristiani in politica.

Nel 1973 rimase celebre la sua lettera “La terra è di Dio” in cui denunciava la speculazione delle aree urbane a Roma ai fini del mero profitto senza mettere la terra – e le case popolari, le abitazioni – a servizio della gente che ne aveva bisogno.

L’abate Franzoni era amico di Paolo VI che aveva stima e affetto nei suoi confronti e con il quale condivideva l’assillo per una Chiesa che fosse davvero al passo coi tempi, una Chiesa aperta ai bisogni e alle contraddizioni della donna e dell’uomo contemporanei, in una società che andava cambiando in modo forse inaspettato e rapidissimo.

Si era battuto perché fosse mantenuta la legge che acconsentiva il divorzio, idem per il referendum sull’aborto. Dom Franzoni non era certamente abortista, anzi aveva in massima cura la vita, specie quella dei più deboli, ma riteneva insopportabile l’aborto clandestino in cui la donna era doppiamente sottomessa e bistrattata: perché la pratica era ed è onerosa e insicura per la salute della donna. Secondo la sua posizione, non condivisa dall'episcopato italiano, la legge era un male minore, che garantiva meglio i diritti della donna, non certamente la conquista di un diritto civile come intendeva ad esempio Marco Pannella.

Ma lo si vide in prima linea anche per l’opposizione alla parata militare del 2 giugno, contro le folli spese militari, per l’obiezione di coscienza, nella manifestazioni contro la guerra del Vietnam.

E’ stato tra i fondatori di Com (poi Com-Nuovi Tempi) insieme, tra gli altri, a Piergiorgio Rauzi, un giornale a volte polemico, ma nel segno della comunione e della fraternità, sempre per un rinnovamento vero della Chiesa (“Ecclesia semper reformanda”, ripeteva spesso).

Il suo allontanamento dalla Basilica di San Paolo, l’adesione al Partito comunista, la creazione successiva della Comunità di base in via Ostiense non l’aveva distolto da quello che è stato il suo tratto costitutivo fino alla fine della sua vita: essere un monaco benedettino.

Era una persona di una dolcezza strabordante – chi lo ha conosciuto anche solo per un po’ ne rimaneva colpito -, dotato di ironia e di una grande cultura sui testi biblici e sui Padri della Chiesa. Sempre disposto a girare l’Italia per parlare, mettersi a disposizione, riservando poco tempo per sé. Una persona generosa. Era particolarmente vicino ai malati psichici rinchiusi nel Santa Maria della Pietà, e tutto ciò per Franzoni voleva significare fermarsi con loro in corsia o in cortile, parlare e anche ridere e scherzare.

Aveva sposato una donna giapponese, non credente, con cui ha condiviso gli ultimi anni della sua vita, negli acciacchi dell’età, nella speranza e nella fede. Nella sua autobiografia ( Rubettino editore) si definiva un cattolico “marginale”, aveva spedito il libro anche a Papa Francesco e sperava con tutto il cuore che squillasse il telefono anche per lui un giorno o l’altro… (ma poi sussurrava tra sé, a scusante, e non senza un po’ di tristezza, che forse il libro non gliel’avevano neanche consegnato).

E’ stato un teologo lucido e consapevole; forse fra qualche anno le sue idee e pensieri, il suo agire, come per don Milani e don Mazzolari, verranno riscoperti e valorizzati. Perché a Giovanni premeva sopra ogni altra cosa essere parte dell’ecclesìa, anche se non al centro della scena, appunto, un po’ al margine. Gli premeva essere fedele al Vangelo, anche se con forme e modi diversi; la grande libertà del cristiano.

Aveva promosso iniziative per la Palestina, per una pacificazione che partisse dal basso, dalla gente, tra palestinesi e israeliani. Si è sempre interessato dell’America Latina – per la teologia della liberazione -, dove era amico fraterno di vescovi come Helder Camara a Recife, Evaristo Arns a San Paolo del Brasile, Mendes Arceo in Messico o Leonidas Proano a Riobamba in Ecuador. Tanti altri vescovi, sacerdoti e laici “di frontiera”. Sosteneva che la liberazione doveva assumere i contorni dell’“integralità”, non soffermarsi, cioè all’aspetto economico, ma includere l’educazione della persona nel suo cammino di ricerca delle cose che valgono e del senso della fede. Non per nulla era un grande estimatore di Paulo Freire, il “pedagogo” della liberazione integrale in Sudamerica negli anni ’70.

Negli ultimi tempi Giovanni – ormai molto anziano – aveva perso quasi completamente la vista, ma sorretto dalla pazienza e tenacia della moglie Yukiko, riusciva ugualmente a partecipare alle assemblee della Comunità di San Paolo. Da diversi mesi intratteneva un dialogo da cui era sorta un’amicizia con l’attuale Abate della Basilica di San Paolo. Aveva un carattere solitamente ottimista “l’abate Franzoni” perché anche se ridotto allo stato laicale conservava sempre quella sua aria “sapienziale” (citava a memoria passi dei Padri della Chiesa e del suo preferito, san Benedetto), un’aria gioviale e gioiosa. Non ha mai smesso di sentirsi “benedettino” nel fondo del cuore. Sapeva di affidarsi a Colui che scrive dritto anche sulle righe storte e – come scrisse nel suo testamento il Priore di Barbiana – “annota tutto nel suo conto”.

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