Il ritorno della questione regionale

C’è qualche preoccupazione in giro per l’approssimarsi del referendum consultivo che hanno indetto le regioni Lombardia e Veneto teso a mostrare quanto diffusa sia la volontà che questi organi godano più o meno dello stesso status di cui beneficiano le regioni a statuto speciale. L’iniziativa è stata presa strumentalmente dalla Lega e il centrodestra si è accodato, anche se poi vedremo come farà i conti con la non indifferente componente meridionale del suo elettorato, che certo è piuttosto allarmata dai possibili sviluppi, per la verità molto futuri, della faccenda.

Si è visto però che molti esponenti del PD in quelle aree, specie coloro che hanno posizioni nel governo locale, si sono dichiarati, pur in forme diverse, a favore dell’iniziativa. C’era naturalmente da scommetterci, perché indubbiamente c’è un sentimento popolare nelle regioni del Nord e in parte di quelle del Centro assai favorevole all’idea di poter beneficiare delle risorse che si producono, come si ritiene facciano tutte le regioni a statuto speciale.

Stracciarsi le vesti col solito ritornello dell’unità nazionale che sta andando in frantumi è francamente puerile. Di per sé un impianto federale o anche più semplicemente regionalista è perfettamente compatibile con il mantenimento di un sentimento di unità nazionale: ci sono vari esempi in questa direzione. Se in Italia ciò è a rischio, non dipende dalla crisi del centralismo, ma dall’incremento che hanno conosciuto le cattive politiche distributive per cui una parte dei cittadini ritengono, forse non del tutto a ragione, ma neppure del tutto a torto, di essere le classiche formiche che stanno lavorando per consentire alle cicale di passare allegramente una estate che nel loro caso non finisce mai.

Se si portasse il ragionamento fino in fondo, si vedrebbe che la situazione prescinde dall’esistenza o meno di una autonomia speciale. La Sicilia quell’autonomia ce l’ha, ma le serve per produrre sprechi e voragini nei conti che poi regolarmente lo stato centrale ripiana, mentre il Trentino-Alto Adige non solo non produce buchi, ma si accolla l’onere di molti servizi che altrove gravano sulla finanza centrale.

Resta il fatto che la questione regionale andrebbe affrontata seriamente, prima che la faccenda scappi di mano. In verità dovrebbe esserci una commissione di studio messa in piedi a Roma quando si pensava che sarebbe passata la riforma costituzionale, con tutte le sue ambiguità su questo tema, ma che cosa faccia e se esista ancora non lo sappiamo. La riforma costituzionale, bocciata allegramente senza valutare le conseguenze di quel che si faceva, per la verità cercava di mettere mano alla vicenda, mischiando norme di accentramento governativo per compiacere all’opinione allora dominante che le regioni fossero spendaccione con norme che lasciavano intendere la possibilità che le regioni “virtuose” avrebbero avuto maggiori spazi di autonomia (lasciamo qui da parte la questione del senato a base regionale, che pure avrebbe comportato una innovazione che a priori non si può dire se sarebbe stata positiva o negativa, ma che comunque era interessante).

Come sempre tutto è stato lasciato corrompersi a livello di slogan e pregiudizi e oggi è difficile lamentarsi se due regioni “virtuose” come Lombardia e Veneto cavalcano lo spirito popolare che si chiede perché a loro non sia consentito di fare come a Trento e a Bolzano. Difficile negare che in tutta una serie di comparti la loro amministrazione sia di buon livello (la perfezione non è di questo mondo), che siano regioni che producono molto reddito e che la loro gente si chieda perché quel reddito serva a sostenere regioni che da lunghi decenni non riescono a mettere in piedi una amministrazione decente. Ovviamente la sanità è un comparto facilmente sotto gli occhi, perché i lombardi e i veneti che frequentano gli ospedali vedono benissimo quanto essi servano anche pazienti che vengono da regioni che ricevono soldi ed hanno sulla carta molti ospedali a cui però i loro abitanti non vogliono affidarsi.

Ovvio che più o meno lo stesso discorso potrebbe farsi per il Piemonte, l’Emilia Romagna e la Toscana, ma se lì al momento il tema non ha ancora raggiunto il surriscaldamento delle regioni a guida leghista non c’è da illudersi: per quanto quei governatori cerchino una via di fuga dalle suggestioni leghiste, il pericolo per loro è dietro l’angolo.

Dunque sarebbe assolutamente il caso che i grandi partiti, se ancora esistono, si dessero da fare per prendere in mano la problematica regionale prima che essa diventi ulteriore benzina per incendiare i falò elettorali del populismo. Bisogna evitare il federalismo abborracciato della riforma costituzionale del centrosinistra, accettando invece di discutere come organizzare una cessione di comparti (con relative risorse) alle regioni che sono in grado di farsene carico, escludendo semplicemente quelle che non hanno né le risorse né le competenze per farlo (a prescindere dalla loro natura di regioni a statuto speciale). Certo bisogna fare tutto in maniera responsabile, per cui se chi si assume degli oneri e riceve i mezzi per farvi fronte poi non ce la fa, deve sapere che non potrà in nessun caso andare a battere cassa al governo centrale.

L’impresa è ovviamente improba, per la semplice ragione che c’è un problema di raccolta del consenso elettorale e non si dispone, si abbia il coraggio di ammetterlo, di una opinione pubblica capace di vedere al di là delle difese dei propri tornaconti di breve periodo. Tuttavia la questione regionale è oggi più esplosiva di quanto non fosse vent’anni fa. Non dimenticarlo aiuterebbe questo paese.

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