Imprese, voltano pagina gli aiuti alla ricerca

Negli ultimi 15 anni la Provincia ha finanziato circa 600 progetti per 600 milioni di spesa e un contributo complessivo di oltre 300 milioni

La revisione degli aiuti alla ricerca, varata dalla Giunta provinciale il 30 giugno, è passata un po’ in sordina. In effetti si tratta di novità procedurali che possono non appassionare, pur riguardando gli incentivi alle imprese più sostanziosi. Questo sia per le misure elevate (fino al 65% per le grandi imprese, e fino all’80% per le piccole) sia per i congrui stanziamenti di bilancio, che negli anni scorsi hanno consentito di accompagnare prevalentemente «a sportello» (cioè senza bandi e graduatorie) quasi tutte le domande. Una manna dal cielo, frutto di una precisa scelta politica, del tutto coerente con le direttive europee, che sugli aiuti a favore dei saperi sono di manica molto larga. Per due motivi. Anzitutto, come ricorda l’assessore Alessandro Olivi nella sua delibera, perché «tutti gli studi economici confermano che nel medio periodo soltanto attraverso un investimento consistente in ricerca si riesce a garantire una crescita del PIL»; e poi perché – spiega Sandra Cainelli, dirigente dell’Agenzia Provinciale per l’Incentivazione delle Attività Economiche – «la variabilità nei risultati rende difficile l’accesso ai finanziamenti e spesso occorrono anni prima che le ricerche possano essere applicate alla produzione e divenire remunerative». Il sostegno pubblico è perciò indispensabile. Detto fatto: negli ultimi 15 anni la Provincia ha finanziato circa 600 progetti per 600 milioni di spesa e un contributo complessivo di oltre 300 milioni, più del 50 per cento medio, oltre agli incentivi fiscali.

Perché allora questa riforma? Perché la «relazione stabile tra crescita del prodotto e del benessere, e investimenti in ricerca», di cui parla l’assessore, non è scontata. Servono tre passaggi: a) che l’aiuto si traduca in ricerca aggiuntiva, rispetto a quella che l’impresa farebbe comunque (effetto di incentivazione); b) che la ricerca incida sulla competitività dell’azienda; c) che quest’ultima si traduca in beneficio collettivo (PIL, occupazione, salubrità, energia ecc.).

«Fin qui i progetti non sono stati confrontati fra loro, ma valutati singolarmente nell’ambito di procedure generalizzate, con relativa sicurezza dell’aiuto pubblico. Anche da ciò sono dipese ricadute economiche e occupazionali, e sinergie con il territorio, non sempre in linea con le risorse pubbliche dispiegate», afferma Claudio Moser, dirigente generale del Dipartimento Sviluppo economico e lavoro. La procedura a sportello sarà perciò riservata agli estremi dello «schieramento» dei progetti, cioè quelli fino a 500 mila euro e quelli più complessi (oltre 1,5 milioni o nuovi centri di ricerca), negoziati con l’azienda e con il sindacato. Per l’ampia fascia intermedia si ricorrerà invece ai bandi, attivando un confronto sui contenuti di eccellenza delle varie ricerche, nella speranza che la competizione anche in questo campo stimoli la creatività. Sono poi previste varie misure di snellimento, come il calcolo standardizzato delle spese del personale.

Si volta pagina. Il sostegno diffuso e a nastro continuo dei nuovi saperi, vanto delle politiche d’incentivo, ha trainato le nostre imprese in una crescita della spesa per ricerca e sviluppo, che in dieci anni (2005-14) è passata dallo 0,2% del PIL (meno della metà rispetto al Nord Est e alla media italiana) allo 0,87%, superando il Veneto e la media del Paese, e doppiando l’Alto Adige. Ora si passa la mano alla selezione competitiva dei progetti e dei loro benefici. Visioni diverse, figlie di tempi diversi, ma della stessa madre: l’economia della conoscenza. L’importante è continuare a investirci.

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