Un sistema basato sui veleni e sulle guerre intestine

L’opinione pubblica che non si fa coinvolgere nelle faziosità politiche si interroga su cosa stia succedendo nel delicato equilibrio tra le istituzioni. Il panorama è inquietante: ancora rivelazioni su gestioni a dir poco disinvolte delle inchieste sull’affare Consip; la Lega che si scatena contro i magistrati per un atto dovuto come è il sequestro dei conti correnti del partito perché così impone una sentenza della Cassazione; i Cinque Stelle che si battagliano contro tutti mentre danno prova di inconsistenza politica nella gestione della selezione del candidato al vertice del movimento. Il tutto condito da baruffe politiche senza senso come il tentativo di Berlusconi di riaccreditarsi come il centro del sistema, l’estrema sinistra che fa i fuochi d’artificio per contendersi il controllo di un “campo” che nessuno sa quanto sia esteso, le diatribe sottotraccia tra le varie correnti del PD, il “centro” popolato di fantasmi alla ricerca di un clientelismo che è ormai fuori moda, almeno nei vecchi parametri.

Il tutto sullo sfondo di una economia che invece sembra confermare le possibilità di ripresa, sebbene i termini della faccenda rimangano oggetto di valutazione. Il governo procede tenendosi al margine di questa palude, anche se alla fine non sembra più capace di incisività, perché tutto è sottoposto al ricatto di un parlamentarismo con maggioranze incerte e perennemente in crisi di nervi per l’incombere delle elezioni.

A questo proposito sembra ripartire il grande gioco della riforma della legge elettorale. Adesso si avanza l’ipotesi, non si sa se realistica o buttata lì per fare confusione, di un sistema che combinerebbe un 37% di collegi uninominali con un 63% di collegi proporzionali con liste bloccate e senza preferenze. La logica di questo mix e soprattutto delle proporzioni fra le due componenti è oscura, perché risponde solo ad interessi di bottega dei vari partiti, ma si conta sul fatto che tanto gli elettori mangeranno senza discutere la minestra che gli viene ammannita. Ci sarebbe il problema dell’astensionismo, ma a contenere quello ci si illude da tutte le parti che basterà surriscaldare il clima scatenando le opposte tifoserie.

Sta di fatto che risulta sempre più evidente il deteriorarsi delle strutture di connessione del sistema politico-sociale. Questo è il vero problema a cui i partiti non hanno intenzione di dare risposte. Il ritornello che viene ripetuto da tutti è: fate andare al governo noi e sistemeremo tutto. Così dicono i Cinque Stelle, così urla Salvini, così spiega Berlusconi, così disseminano i vari D’Alema, Bersani, Pisapia e compagni. Gli unici che non possono metterla in questi termini sono i capi del PD, visto che loro al governo ci sono già. Così sono costretti a barcamenarsi fra il reclamare il riconoscimento dei miglioramenti raggiunti e la promessa a fare molto di più solo che gli si dia la maggioranza sufficiente (come si farà a tenerla compatta è un tema sul quale si glissa volentieri).

Intanto il deteriorarsi dei legami connettivi del sistema porta alla guerra di tutti contro tutti. Gli apparati istituzionali, i diversi centri di gestione delle politiche pubbliche, sono percorsi da tensioni continue in cui emergono le tentazioni di singoli soggetti di agire in proprio per intervenire nel processo in atto. E’ una tentazione che abbiamo visto all’opera con effetti non proprio salutari ai tempi di Tangentopoli e che oggi sarebbe bene frenare memori dei pasticci che si sono combinati a quell’epoca. E’ però difficile intervenire quando ogni azione di contrasto viene presentata ed interpretata come un “favore” a questa o a quella parte in conflitto, sicché lo stesso governo cui dovrebbero spettare doveri e compiti di disciplinamento dei rapporti istituzionali è troppo debole e troppo coinvolto nel gioco al massacro per esercitare la sua funzione.

Come si uscirà da questa situazione è arduo da prevedere. Il dominio della politica come “spettacolo” è tutt’altro che in crisi come mostra tutta la vicenda della scelta del candidato di bandiera del M5S (candidato premier è una battuta, perché nel nostro sistema e in questo contesto non esiste il meccanismo). Luigi Di Maio è stato costruito a tavolino come leader designato, e meravigliarsi se ora nessun competitore gli si può opporre significa avere chiuso gli occhi di fronte a quanto si è fatto negli ultimi due anni da parte dei registi dell’operazione, cioè Grillo e Casaleggio.

Del resto a questo andazzo si sono adattati più o meno tutti, si vedano le fortune mediatiche di tanti personaggi dalle più che improbabili doti quanto a capacità politica. La selezione della classe dirigente è una cosa seria, richiede filiere robuste e tanto senso dell’interesse pubblico. Cose che, diciamo la verità, in Italia non hanno mai abbondato.

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