“Una decrescita felice”

Is 61,1-2.10-11;

Lc 1,46-50.53-54;

1Ts 5,16-24;

Gv 1,6-8.19-28;]

Gli inviti alla gioia piena (prima lettura), all’esultanza (salmo responsoriale) e al rendimento di grazie (seconda lettura) caratterizzanti la liturgia della Parola di questa domenica «Gaudete» («Rallegratevi»), terza di Avvento, sembrano indebolirsi di fronte a Giovanni Battista, testimone serioso e determinato del Vangelo. D’altra parte quando pensiamo ad un campione della gioia non pensiamo immediatamente a lui! Eppure, la lieta notizia scaturisce proprio dal prendere sul serio il cammino di ricerca del Battista e dal metterci coraggiosamente insieme a lui «al di là del Giordano» per guardare alla Terra Promessa (Gesù) con occhi nuovi, per ricominciare a farci domande sul nostro cammino di fede e sui nostri desideri profondi. Anche noi, interrogati insieme a Giovanni Battista, ci lasciamo coinvolgere dal di dentro e ci lasciamo interpellare: «Chi sei?» e anche «Chi è Gesù per te?». Allora scopriremo che questa gioia evangelica «ha sempre la dinamica dell’esodo e del dono, dell’uscire da sé, del camminare e del seminare sempre di nuovo, sempre oltre» [Evangelii Gaudium (EG), 21

. Allora comprenderemo che la beatitudine interiore è un dono del Signore da invocare, una missione profetica da riscoprire, un cammino interiore che dà qualità alla nostra relazione con noi stessi, con Dio e con chi abbiamo accanto. Sì, questa è una notevole ed impegnativa sfida per il nostro pellegrinaggio di Avvento!

«Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni» (Gv 1,6). Si rimane sempre stupiti di fronte a questo Dio che, come già nella profezia di Isaia della prima lettura («Lo spirito del Signore è su di me … mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai poveri» Is 61,1), si mette alla ricerca di uomini e di donne («grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente» Lc 1, 49) per mostrare il suo volto! L’iniziativa è di Dio, suo è il desiderio di entrare in relazione con noi. A noi la gioia di saperci amati, cercati e voluti da Dio. A noi osare la vita sapendo che Dio «ci chiede tutto, ma nello stesso tempo ci offre tutto» (EG 12). Ai suoi occhi noi siamo unici come sposi e spose bellissimi nei nostri abiti di nozze, perché Dio stesso si è preoccupato di rivestirci «con le vesti della salvezza e con il manto della giustizia» (prima lettura). Sì, noi siamo come preziosi e rari germogli sbocciati nel giardino di Dio perché fecondati e fatti crescere dal suo amore: non è questa gioia autentica?

«Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce» (Gv 1,8). Ecco l’idea fondamentale che delinea la figura del Battista secondo l’evangelista Giovanni: egli è colui che rende testimonianza alla luce per condurre molti a conoscere lo stesso Gesù, luce vera. La sua forza è la propria vita. Il testimone è uno che ha visto, ha sentito, ha partecipato, ha fatto esperienza in prima persona. Con il suo modo di vivere Giovanni Battista annuncia la sua personale conoscenza di Dio: è affidabile perché uomo innamorato di Dio che si è lasciato condurre al di là di sé. Sì, ha dato voce a quello che ha scoperto «perché, se qualcuno ha accolto questo amore che gli ridona il senso della vita, come può contenere il desiderio di comunicarlo agli altri?» (EG8).

È singolare: per tre volte il Battista testimonia chi egli non è. Con fermezza annuncia che lui non è il Messia, non è l’Elia definitivo e non è il profeta che tutti aspettavano. Si riconosce di essere terra amata da Dio e questo gli basta («perché ha guardato l’umiltà della sua serva» Lc 1, 48). Non approfitta delle occasioni e da uomo consapevole di sé, ha una chiara visione della propria persona e della propria missione, dice quello che è e dice quello che non è, non si prende ciò che non gli spetta. Riconosce la propria missione di essere voce e non si appropria della Parola perché egli è il discepolo che «sa offrire la vita intera e giocarla fino al martirio come testimonianza di Gesù Cristo, però il suo sogno non è riempirsi di nemici, ma piuttosto che la Parola venga accolta e manifesti la sua potenza liberatrice e rinnovatrice» (EG 24).

Non è forse gioia vera vivere questa libertà interiore?

«In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non son degno di slegare il laccio del sandalo» (Gv 1,27). In quel gesto dello slegare il laccio del sandalo si sovrappongono due figure: lo sposo ed il servo. Infatti, il gesto simbolico di slegare il legaccio del sandalo era previsto nella cosiddetta legge del levirato (Dt 25,5-10): quando un uomo rinunciava al diritto di riscatto verso la propria cognata, rimasta vedova, per dare una discendenza al fratello morto, si toglieva il sandalo e lo consegnava. Giovanni sa bene che non può togliere il diritto di matrimonio allo sposo legittimo, che è Gesù stesso, il Messia atteso da Israele e da tutta l’umanità. Nello stesso tempo, questo gesto era anche il lavoro umile dello schiavo nei confronti del suo padrone, ed il Battista è anche consapevole di non potersi arrogare il titolo di servo perché solo Gesù è il servo del Signore. Così alla fine della sua vita Giovanni il testimone annuncerà: «l’amico dello sposo… esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena. Lui deve crescere; io invece, diminuire» (Gv 3,29-30) regalandoci la definizione più bella del nostro essere discepoli di Cristo. Un programma di decrescita felice!

Paolo lo traduce in tre passi: «Essere sempre lieti, pregare ininterrottamente, in ogni cosa rendere grazie» (1Ts 5,16).

Buon pellegrinaggio nei sentieri della gioia!

a cura della Comunità monastica di Pian del Levro

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