Medio Oriente, benzina sul fuoco

Trump getta benzina sul fuoco. Lo fa ben sapendo di contribuire in modo determinante ad espandere l’incendio in Medio Oriente con fiamme altissime (seminando odio, innanzitutto, odio e rancori in profondità, anche se le manifestazioni provocano stanchezza e disincanto se non raggiungono alcun risultato, alla lunga sfiancano il più volenteroso dei popoli) come gli incendi in questi tempi nella Costa ovest degli States che affannati intrepidi pompieri faticano a spegnere.

In tutti questi anni – sono decenni ormai, a partire dalla guerra del 1947 conosciuta come la Nakba, la disperazione per la cacciata,  alla guerra dei sei giorni del ’67 fino al 1982 con Sabra e Chatila, due campi profughi palestinesi rasi brutalmente  al suolo – in tutti questi lunghi anni Israele ha perseguito una politica di espansionismo territoriale in evidente contrasto con i legittimi diritti dei palestinesi che da sempre abitano quelle terre da cui vengono espulsi e cacciati violentemente. La politica degli insediamenti israeliani – condotta con voracità dai governi di destra e tacitamente condivisa dagli esecutivi laburisti – ha in sé uno scopo preciso, quello di costruire la Grande Israele (un sogno velleitario e profondamente iniquo), parvenza neppure tanto velata dell’aspirazione alla Terra Promessa di biblica memoria, con Samaria e Giudea (altro che West Bank/Cisgiordania come adesso si chiama parte di quelle terre!). In totale contrasto con le legittime aspettative dei palestinesi ad avere una terra in cui abitare e abitare in pace.

Israele ha sempre disatteso in modo sprezzante tutte le Risoluzioni dell’Onu, da ultima quella del 2016 che ha ribadito l’illegalità degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e compresi gli insediamenti a Gerusalemme est. La decisione irresponsabile e provocatoria di Trump, esponente di un’America “profonda” che non percepisce il progredire della storia, è la nemesi perfetta, un ostentato contrappasso dantesco di quello che era l’auspicio di Obama all’Università del Cairo nel 2009 quando disse: “Sento in cuor mio la disperazione del popolo palestinese, ancora senza terra e senza patria”. Dopo otto anni di mandato presidenziale democratico negli Stati uniti, nulla è cambiato, certo, anche per le colpe palestinesi, le divisioni, le diatribe interne tra la leadership di Gaza, desolante e disperata, frenetica (Gaza: una prigione a cielo aperto, mai dimenticarlo!) e quella della Cisgiordania, più compassata e inerte, conciliante.

Quello che rimane è un popolo che soffre tremendamente (l’ha ricordato il senatore Santini, più volte eurodeputato e come tale “frequentante” quegli aspri territori, che oggi “la questione palestinese è prima di tutto una emergenza umanitaria”). Decine di migliaia di palestinesi continuano a vivere in condizioni indecenti e misere, tra check-point quotidiani da oltrepassare e umiliazioni subite, le loro case che vengono abbattute per far posto agli insediamenti dei coloni e la cacciata in “zone chiuse” – specie di bantustan – che non hanno nulla da invidiare ai ghetti neri del triste Sudafrica dell’apartheid.

Che il Giro d’Italia 2018 – nel prossimo mese di maggio – parta da Israele per celebrare i 70 anni della fondazione dello Stato di Israele la dice lunga sulla smemoratezza di chi a parole condanna politiche di espansione territoriale e però non ricorda che la Nakba, la distruzione, significò centinaia di villaggi palestinesi distrutti e l’espulsione di quasi un milione di persone dalle loro case. E’ uno stillicidio – un esodo amaro e umiliante – che continua.

In sintonia tragica con quanto si è ricordato nei giorni del Natale, di un episodio accorso – più di duemila anni fa – alla famiglia di un falegname di Nazareth costretta ad andare “fuori le mura” di Betlemme perché non c’era posto, per loro, per la nascita del bambino.

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