“Tessitori di speranza”

Gb 7,1-4.6-7;

Sal 146;

1Cor 9, 16-19.22-23;

Mc 1, 29-39]

«Se non avessi Giobbe! É impossibile descrivere le sfumature di significato, e la varietà di significati che ha per me. Io non lo leggo come si legge un altro libro, cogli occhi, ma metto per così dire il libro sul mio cuore e lo leggo cogli occhi del cuore […

. Ognuna delle sue parole è cibo e veste e medicina per la mia anima in miseria. Ora, una sua parola mi scuote dal letargo destandomi perciò a nuova inquietudine, ora placa la furia infruttuosa che mi rode dentro, fa cessare i conati orrendi e muti della passione. Ma avete letto Giobbe? Leggetelo, leggetelo e rileggetelo.» Così scriveva Kierkegaard, filosofo e teologo danese del XIX secolo, gustando la profondità e l’attualità del libro sapienziale di Giobbe che la prima lettura di questa nostra domenica ci invita ad ascoltare.

Forse non arriviamo ad esprimerci o solamente a pensare come il noto filosofo, ma certamente i pochi versetti che ci vengono offerti oggi non possono lasciarci indifferenti. «I miei giorni scorrono più veloci di una spola, svaniscono senza un filo di speranza» ci dice Giobbe e noi non facciamo fatica a sentirvi riecheggiare quei momenti di angoscia, di dubbio e di buio che hanno segnato alcune fasi della nostra vita o che magari stiamo vivendo adesso. O forse, di fronte a certe situazioni di sofferenza fisica o psicologica, non ci sembra che il «filo di speranza» si stia spezzando? Speranza o disperazione. Luce o buio. Questo alternarsi esistenziale sembra attraversare le pagine di Giobbe e nello stesso tempo, percepiamo nella profondità di noi stessi che quanto viene espresso delinea sentieri necessari per maturare una relazione intima, schietta ed aperta con Dio. Parole brucianti che scavano dentro, certamente, ma che ci portano sulla soglia del mistero della vita e che ci fanno uscire dall’indifferenza, dalla durezza di cuore e dall’individualismo portatore di non senso. Giobbe è uomo coraggioso ed è immagine di ogni credente che non si rassegna al silenzio di Dio, ma fa di tutto per chiamarlo in causa nel proprio dolore e soprattutto non vuole arrendersi alla disperazione. In quel suo «ricordati che un soffio è la mia vita» fa ascoltare il suo accorato appello verso Colui che ancora si pensa capace di pronunciare una parola carica di senso.

Il Gesù del vangelo di questa domenica raccoglie questo interrogativo di Giobbe e presta volto, mani, sguardi ad una via possibile anche dentro la sofferenza: quella dell’incontro, del farsi prossimo, del prendersi cura e della compassione. Una vera perla la lieta notizia di oggi! Da leggere e rileggere e lasciarla decantare dentro di noi. Siamo ancora a Cafarnao. Dopo aver contemplato, domenica scorsa, un Gesù capace di lottare e di vincere contro la forza del male guarendo e ridonando la pienezza di vita ad un indemoniato, ora «uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni». Ancora una volta incontriamo l’avverbio «subito» dal momento che Marco ama raccontare i primi avvenimenti della vita pubblica di Gesù tutti uno dopo l’altro, subito, senza neppure una pausa. Vi è uno scandire temporale preciso: il giorno, la sera ed il mattino. Un tempo ritmato da Gesù, protagonista assoluto della scena e dal suo urgente annuncio del Regno di Dio. Nella sinagoga, in casa e davanti alla porta, Gesù non solo proclama la sovranità dell’unico Signore, ma anche la offre donando liberazione, vita nuova e guarigione. Vi è un affollarsi di miracoli, segni dell’avvicinarsi del Regno di Dio, ma insufficienti per portare alla fede piena in Gesù e nel Padre che lo ha inviato. Per questo Gesù «non permetteva ai demoni di parlare» perché occorrerà aspettare l’impotenza di Gesù, la debolezza della croce per comprendere appieno la vera identità di Gesù. In effetti, tale sovrabbondanza di vita non è solo donata a piene mani, ma è anche continuamente ricevuta dal Padre («Al mattino presto si alzò quando era ancora buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto e là pregava») e preservata dalla logica umana del successo («Andiamocene altrove, nei villaggi vicini perché io predichi anche là: per questo infatti sono venuto!»). Così il racconto del primo miracolo, come piccola perla preziosa, introduce ed orienta la narrazione evangelica successiva. La guarigione della suocera di Pietro: un miracolo insignificante in apparenza, ma che custodisce in sé la chiave di lettura di tutti gli altri. La Parola non solo ci libera dal male, ma anche ci rende liberi per il bene, per gli altri come dono. Non vi sono parole, ma solo gesti e la compassione domina la scena domestica. Gesù è ospitato, ma in quella casa c’è una fragilità, una febbre che tiene a letto. La suocera di Pietro, una donna, ha la febbre e proprio per questo secondo la legge di Israele avrebbe potuto avere malattie che la rendevano ritualmente impura. Di fronte al bisogno, a colei che non può ben accogliere l’illustre ospite, Gesù si lascia coinvolgere. Non ha paura, accoglie l’intercessione dei due fratelli. Si fa prossimo: «Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano», ed in quell’«alzare», in greco infatti si utilizza uno dei due verbi della risurrezione di Gesù, iniziano a brillare le luci di Pasqua. La mano di Gesù comunica alla donna ammalatala forza vitale della sua compassione, la solleva, «la fa risorgere». Subito «la febbre la lasciò ed ella li serviva» divenendo discepola di Gesù pronta a mettersi in servizio di quella piccola chiesa domestica. Il verbo che descrive il suo servizio (diakoneo) indica un agire ministeriale nella chiesa primitiva: guarita si mette a servizio di un bene più grande. Primo frutto del Vangelo annunciato. In questa donna «risorta» come nella «vedova povera» della fine del Vangelo secondo Marco (Mc12,42) scorgiamo i tratti di Gesù stesso che «svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo» (Fil 2,7) poiché «se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Mc9,35). Toccata da Gesù, la suocera risollevata, riceve l’amore autentico e diventa servizio. Ecco la logica pasquale, la via capovolta del bene proclamata da Gesù fin dai suoi primi passi. Così il «filo della speranza» si riannoda tessendo trame di misericordia, di prossimità, di comunione e di reciproca accoglienza.

a cura della Comunità monastica di Pian del Levro

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