Macerie afghane

La risposta del Pentagono è di raddoppiare il contingente americano: una risposta militare senza una chiara proposta politica di lungo respiro

Ci risiamo. Le trascorse (negative, nefaste) esperienze non sembrano avere insegnato nulla. In Afghanistan si va ad un nuovo riarmo, ad una riedizione del processo di militarizzazione dello scontro. In un tessuto sociale già provato da anni e anni di guerra guerreggiata (è dalla fine degli anni Settanta che quella gente non conosce la parola pace, se non la pace dei cimiteri di Tacito: “hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato pace”) si decide di andare ancora alla guerra. Come leggere altrimenti la decisione del Pentagono (di Trump: improvvido, sprovveduto) di rafforzare – raddoppiare – il proprio contingente da 8.400 a 15 mila uomini fino alla vittoria? Qui viene davvero il sospetto che si faccia la guerra per vendere armi, il profitto che genera morte e che ha bisogno delle morti (di innocenti per lo più, di civili) per consolidare il proprio business in un intrigo perverso e patogeno.

D’accordo che in quest’ultimo periodo la guerra dimenticata a Kabul e dintorni ha visto un crescendo di attentati e stragi, dai colpi di mortaio che hanno dato il benvenuto al segretario alla difesa americano Mattis, alla strage nella moschea di Zaman che ha fatto quasi cento morti ed è stata rivendicata dall’Isis, fino all’attentato con una decina di vittime proprio a poca distanza dall’ambasciata degli Stati uniti. Però, come si fa a rispondere puramente sul piano militare – in una tattica senza senso e nell’ottica di una strategia di corto respiro e già in partenza perdente – senza mettere sul tavolo una proposta politica? E qui veniamo al nocciolo della questione afghana.

Una proposta politica seria

Non c’è alcuna possibilità di fuoriuscita da una situazione insostenibile che si riverbera sulla vita quotidiana della gente (insicurezza, paura, traumi da stress specie per i bambini, ed è gravissimo!) se non si arriva al più presto ad un accordo con i talebani “moderati”. Una proposta già sollevata anni fa e a cui non si è mai voluto giungere per un preciso motivo, evidentemente: vuol dire che c’è qualcuno a cui piace fare la guerra, che ci guadagna tantissimo e che vuole che la guerra continui.

L’unico modo, invece, per porre i presupposti per una pacificazione è quello di “parlare” con una parte consistente del “paese reale” che è rappresentato dai talebani (termine che suscita orrore e ripugnanza, segno di oscurantismo e intransigenza fondamentalista). Urge spaccare il fronte talebano, con un’operazione politica lungimirante, isolare l’ala più retrograda e terribile degli Haqqani per instaurare una trattativa e un dialogo con gli altri. Perché non lo si fa? E al più presto, prima che Isis metta radici, dopo la sconfitta in Siria ed Iraq? Guai se si crea un’inedita alleanza tra gli uomini in nero, fanatici e freddi uccisori, e i talebani senza operare una distinzione che è fondamentale. Sarebbe la fine per l’Afghanistan, per un Afghanistan pacificato e con parvenze appena democratiche (garanzie minime di convivenza, rispetto dei diritti fondamentali, elezioni decenti, un parlamento che operi e funzioni in favore della comunità nazionale). Non ci sarebbe invio di nuovi soldati, di armi più sofisticate, di mezzi militari ultramoderni.

In questi decenni in Afghanistan si è dimostrato che la conoscenza del territorio, un minimo di “empatia” con la popolazione, una strategia militare elementare ha permesso ai talebani la sopravvivenza rispetto ad ogni spedizione militare con la volontà di porre fine alla questione afghana. E non a caso ampie fette di territorio sono sotto il controllo militare e politico dei talebani, aree off limits per la coalizione internazionale che opera sul campo. Tra cui i nostri soldati, un contingente di 950 militari che lodevolmente presidia la zona di Herat, in un contesto di presenza sbagliata e “improduttiva” ai fini del perseguimento della pace e di un Afghanistan libero e democratico.

Tra incudine e martello

Tra incudine e martello, dolente e perseguita, sta la popolazione civile. Ci sono giovani in Afghanistan che non hanno mai conosciuto la parola “pace”. Prima l’invasione sovietica – la terribile Armata rossa pensava di sbrigarsela in un battibaleno e fu respinta -, poi gli americani e la coalizione internazionale. Sono stati spesi miliardi di dollari in eserciti e armamenti, nel tentativo, ultimamente, di addestrare un esercito regolare afghano. Niente da fare. Demotivati, incapaci, i militari afghani si tramutano spesso in disertori. Il costosissimo programma di investimento militare si ritorce contro chi l’ha programmato e messo in piedi. Molto meglio sarebbe stato spendere quei soldi – una montagna di dollari sperperati – in programmi sociali a favore della gente, non solo a Kabul e nelle principali città ma nei villaggi sparsi dell’Afghanistan “profondo”, quello che solo pochi volenterosi giornalisti raggiungono (Bernardo Valli ed Ettore Mo, un tempo, oggi pochi altri di casa nostra). Proprio quell’Afghanistan dimenticato e lontano si è rivelato spesso il terreno di coltura per una presenza talebana insistente, perniciosa ma non ostile. Preferita a quella che viene percepita – volenti o nolenti – come una presenza – un’invasione – straniera.

Occasione perduta

La storia recente afghana sarebbe andata molto diversamente se (ma la storia non si fa con i “se”) non fosse stato assassinato il 9 settembre 2001, Massud, il mitico comandante del Panshir. Laico di formazione, avversario di ogni forma di integralismo, Massud si stava rivelando l’unico, in Afghanistan, capace di frenare le impudenze e le frenesie dei talebani, che aveva sconfitto in più occasioni dopa aver respinto i sovietici. Non faceva mistero che avrebbe garantito, in caso di arrivo al potere a Kabul, un posto anche alle donne nel suo governo di unità nazionale, togliendole al triste destino del chador e del burqa, al silenzio e all’emarginazione. “Come fate a non capire voi occidentali – osservava – che io non combatto solo per il mio Panshir ma per l’intero Afghanistan, per sottrarlo alla nefasta influenza dei fondamentalisti di Teheran?”.

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