Fine di un ciclo?

E’ stato il presidente del Lazio Zingaretti a parlare in questi termini del risultato delle amministrative. Il Pd è uscito a pezzi dalle amminstrative

E’ stato il presidente del Lazio Zingaretti a parlare del risultato delle amministrative come della “fine di un ciclo”. La sensazione che si sia di fronte ad un fenomeno rilevante dopo l’esito dei ballottaggi di domenica scorsa è diffusa e condivisa, ma se si deve decidere quale sia il ciclo finito iniziano i distinguo e le interpretazioni interessate.

A noi sembra che in realtà proprio i ballottaggi nelle elezioni dei sindaci abbiano confermato una lettura già emersa dopo le urne del 4 marzo: si è di fronte alla domanda di cambiamento di una classe politica che è stata giudicata ormai esaurita nella sua capacità di rispondere ai problemi del momento. Non è questione di decidere se gli elettori abbiano o meno ragione ad esprimere questo giudizio: così è e ne va tenuto conto. Anzi l’alta astensione ai ballottaggi (grosso modo quasi la metà degli aventi diritto) segnala un distacco diffuso dalla partecipazione alla scelta politica. Molti dicono che dipende dalla delusione per questo o quel candidato, ma pensiamo che più banalmente nella maggior parte di quegli elettori prevalga l’idea che tanto sono tutti eguali. Il che non è positivo per un sistema democratico che deve vivere di partecipazione.

Ad uscire a pezzi dal confronto elettorale è stato il PD con le sue precarie appendici di coalizioni più o meno civiche e con partitini sopravvissuti a loro stessi. Avendo perso in molte roccaforti del suo insediamento è evidente che si tratta di un giudizio negativo o quanto meno di un distacco dal modo di gestire il potere di quello che più che un partito era un sistema dirigente della società. Se ci fosse un po’ di consapevolezza,  i politici farebbero bene a meditare sulla stupidità del famoso aforisma andreottiano secondo cui il potere logora chi non ce l’ha. Il potere logora eccome, perché tende a chiudere i suoi detentori in un autismo di cui finiscono per non essere neppure consapevoli.

Nelle regioni rosse il PD era l’erede del sommarsi dell’insediamento sociale del vecchio PCI con altre componenti delle classi dirigenti che aveva inglobato dopo il tramonto del sistema dei partiti della prima repubblica. Sembrava un sistema saldamente radicato perché in grado di compattare tutto: il mondo economico (a volte dalle cooperative alle banche), quello culturale, quello dei servizi pubblici con il suo dominio delle municipalizzate e compagnia. Un tempo in quel sistema c’era spazio per tutti quelli che ne avevano bisogno e del resto chi non voleva entrare in esso non aveva problemi a sistemarsi fuori, ai suoi margini.

La crisi economica ha cambiato tutto, perché non si è più stati in grado di dare se non proprio tutto a tutti, molto a molti, sicché quel che era stato distribuito in precedenza e quel poco che ancora si riusciva a distribuire appariva come un privilegio, una regalia solo a favore di “amici”, qualcosa da cui la gente “normale” era esclusa. Di qui un saldarsi di tutti quelli che non facevano più parte della “cerchia” nel muovere al suo attacco. Nei ballottaggi la dinamica era evidente, ma lo si era già visto nelle amministrative di Torino e di Roma degli anni scorsi: quando lo scontro si polarizzava fra gli esponenti di vertice della cerchia e gli esclusi, questi ultimi dimenticavano le loro divergenze e si univano per “mandare a casa” coloro che gestivano, ormai in un senso percepito come escludente, le risorse pubbliche.

Il PD però rifiuta di fare un esame di coscienza sul suo modo di gestire il potere, troppo organizzato per circoli più o meno magici intorno ai vari leader, incapace di cooptare forze dall’esterno, a meno che non diano garanzia di mettersi al servizio senza rompere le scatole. La ricerca di alleanze esterne non risolve certo quel problema, perché appare, e quasi sempre è, l’inglobamento di un po’ di professionismo politico che negozia qualche apporto, fra il resto molto marginale, con un po’ di poltrone.

In questo contesto per chi è percepito rappresentare una “rivolta contro l’establishment” si aprono praterie. Naturalmente non è tutto oro quel che luccica, e non di rado questi “rivoltosi” sono più che altro personale alla ricerca di conquistare per sé le posizioni di potere dei loro avversari, ma nei momenti di transizione non si va tanto per il sottile e questo è il contesto che ci troviamo di fronte.

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