Coraggio, alzati, ti chiama

Ger 31,7-9;

Sal 126 (125);

Eb5,1-6;

Mc10,46-52

Entriamo nella XXX domenica con un versetto significativo tratto dalla prima lettura. Dio stesso per mezzo del profeta Geremia dice: «Erano partiti nel pianto, li riporterò tra le consolazioni» (Ger31,9). Ancora una volta la liturgia della parola ci dona la possibilità di fare un vero e proprio “tuffo” nel profondo della nostra interiorità, passando dal pianto alla gioia, dal buio alla luce, per tornare a galla e respirare a pieni polmoni. Il detto annunciato dal profeta ha tutto il sapore di salvezza, conforto, sostegno per il popolo di Israele deportato nella tristezza e desolazione a Babilonia. Come uomo di Dio il profeta scorge un futuro diverso da quello che sembra affacciarsi, un avvenire di speranza. Dopo aver perso tutto (santuario, terra, libertà), il popolo assetato di vita potrà finalmente innalzare grandi lodi a Dio che «li riporterà tra le consolazioni e li ricondurrà a fiumi di acqua viva» (Ger 31,9). Nella trasparenza del testo evangelico siamo condotti per mano dall’evangelista a riconoscere in Gesù quella presenza vicina che accompagnava attraverso Geremia il popolo di Israele. Infatti se nel Primo Testamento Dio disse: «Ecco li riconduco nella terra del settentrione, tra loro sono il cieco e lo zoppo» (Ger 31,8), nell’incontro del cieco di Gerico con Gesù assistiamo a gesti, parole, sguardi del “Dio con noi”. In cammino diretti a Gerusalemme, Gesù con i suoi discepoli sosta per breve tempo nella cittadina di Gerico. Può risultare curioso che Gesù, il maestro che insegnava a farsi piccoli, compia il suo ultimo grande prodigio nella città più bassa del mondo (300m sotto il livello del mare)! E forse ancora più significativo è che il suo sguardo e il suo udito si interessino, tra tanta gente, proprio dell’uomo più basso di tutti in quel momento, un mendicante cieco che «sedeva lungo la strada» (v 46). Possiamo avere un’idea molto chiara del contesto di allora pensando a quanti anche oggi siedono lungo i marciapiedi sotto le nostre case e che ci chiedono qualcosa, molto spesso evitati e ignorati da una grande folla che si muove frettolosa e indaffarata. Conosciamo il nome di quest’uomo, a differenza di tanti altri “anonimi” citati nell’evangelo secondo Marco: Bartimèo, figlio di Timèo. I suoi occhi sono bui ma l’udito è vivace e acuto: riesce infatti a sentire che Gesù sta passando di lì. Senza esitare innalza con forza la sua preghiera gridando «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me» (v.47). Confessa la sua fede in colui che può salvarlo chiamandolo con il titolo messianico regale, utilizzato anche dal popolo di Israele per designare l’uomo di Dio tanto atteso soprattutto in qualità di liberatore, anche dal punto di vista politico. Ma nella richiesta del cieco c’è qualcosa in più di un’aspettativa nazionalistica. Lo potremmo tradurre a parole nostre: «Gesù, so che tu sei il re della mia vita, l’unico che può davvero soccorrermi, abbi compassione di me, non sono nulla ma tu sei il tutto». Per due volte deve ripetere la supplica perché la folla intorno reagisce, vorrebbe che tacesse. Non appena Gesù si accorge del mendicante e dice «Chiamatelo» proprio a quella folla ostile e dura di cuore, assistiamo ad un cambio repentino di atteggiamento. Poca personalità o forse il povero Bartimèo non era l’unico cieco lì presente? Gesù ancora oggi continua a coinvolgere donne e uomini per arrivare ai più poveri e per portare l’umanità a Lui. L’incontro tanto atteso tra l’uomo supplicante e il figlio di Dio è a tu per tu, stretto, personale. Gesù pone la stessa domanda che aveva posto ai figli di Zebedeo, si comporta con la stessa delicatezza («che cosa vuoi che io faccia per te?») anche se la risposta poteva essere per tutti scontata. Eppure dobbiamo essere noi consapevoli di quello che desideriamo. Il cieco Bartimèo viene salvato, riceve vista e vita nuova per la sua fede in Gesù. Ed alla fiducia riposta nel Maestro, già testimoniata fino a quel momento, si aggiunge il totale abbandono in Lui: «vide e lo seguiva lungo la strada» (v.52). Osservando dove l’evangelista ha posto il testo, alla fine del capitolo sulla sequela (Capitolo X), questo racconto dovrebbe interrogarci in modo esplicito. Bartimèo è il modello del discepolo per eccellenza. Non siamo solo spettatori della scena: come seguire il Maestro proprio come Bartimèo, mendicanti di Dio sulla strada, pregare con fede e forza per incontrare pieni di desiderio l’unico medico delle nostre cecità e ferite?

Il salmo proposto dalla liturgia suggerisce «Chi semina nelle lacrime mieterà nella gioia» (Sal 126,5). Solo partendo dalla nostra umanità, dagli angoli più oscuri del nostro essere, dalle nostre fragilità e povertà, può scaturire il desiderio di incontro sincero con Dio e con i fratelli e le sorelle. È per noi la scommessa continua di lasciarci fare da Dio fatto uomo che può rinnovare ogni giorno quella gioia profonda di chi sa di essere amato e salvato a prescindere. Solo allora potremo seguire Gesù come il cieco Bartimèo, che probabilmente dopo non molto tempo, sarà stato spettatore con la sua “nuova vista” della crocifissione e risurrezione del Maestro tanto amato. Allora i suoi occhi si saranno totalmente spalancati!

A cura della Comunità Monastica di Pian del Levro

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