Calamità naturali a confronto

I danni dell’alluvione del 1882 sono dipesi dai selvaggi disboscamenti degli anni precedenti. Quella del 1966 è stata aggravata dallo scioglimento delle nevi in quota

L’Associazione Forestale del Trentino ha programmato un incontro tecnico-informativo intitolato “Piccolo mondo forestale antico, la parola ai protagonisti” che si terrà mercoledì 28 novembre nella sala Aurora di Palazzo Trentini a Trento alle 17.30. Alle domande della giornalista Sandra Tafner risponderanno quattro dottori forestali: Donato Nardin, Marco Zorzi, Elio Caola e Pietro Bolner. Sono citati in ordine decrescente di età, ma hanno in comune due fatti: essersi laureati in Scienze forestali all’Università di Firenze negli anni compresi tra il 1950 e il 1960 ed avere operato attivamente e per primi nell’applicazione della nuova tecnica di gestione del patrimonio boschivo denominata Selvicoltura Naturalistica. Introdotta dalla Svizzera e dall’Austria dove si applicava da molti anni con buoni risultati ed imposta con forte determinazione da due figure carismatiche di forestali innovatori: Fabio Cristofolini e Arturo Sembianti. Oltre ai quattro partecipanti all’incontro, meritano citazione altri forestali dell’epoca che, provenendo dalla stessa Università, hanno contribuito con competenza e determinazione all’applicazione dei principi della selvicoltura naturalistica in Trentino e in altre regioni italiane. Si tratta di Elio Corona, Adriano Loss, Arrigo Franceschi e Bruno Tamanini. Quest’ultimo ha scritto anche un manuale pratico sull’argomento che è servito per anni nei corsi di aggiornamento dei giovani forestali assunti dalla Regione Trentino Alto-Adige.

Oggi si parla si selvicoltura sostenibile, ma gli obiettivi sono rimasti gli stessi. Tendere alla perpetuazione di boschi attraverso la rinnovazione naturale. Favorire la formazione e la diffusione di cenosi (comunità di alberi, boschi) costituiti da specie autoctone. Mantenere e favorire la costituzione di consorzi misti. Tendere a strutture con ridotta monotonia (stessa altezza di sviluppo e quindi delle cime) riconducibili a quelle disetanee e comunque a quelle articolate. Convertire i cedui in alto fusto. In parole più semplici: coltivare il bosco non con finalità di rapina, cioè di utilità immediata (taglio raso), ma pensando al futuro e alla perpetuazione del patrimonio boschivo (fustaia o ceduo) a favore di coloro ai quali esso verrà lasciato in eredità.

La gravità del recente evento calamitoso (29 ottobre 2018) rende drammaticamente attuale l’incontro del 28 novembre. La ridotta capienza della sala Aurora induce a pensare che gli organizzatori abbiano limitato gli inviti a persone competenti e addette ai lavori. C’è quindi, a nostro avviso, il rischio che l’incontro si traduca in occasione per trovare coperture ad errori compiuti nella gestione dei boschi e nella tutela del territorio o in un peana celebrativo delle opere e degli interventi fatti nei vari decenni.

Può servire da paradigma il confronto fra tre eventi calamitosi: alluvione del 1882, esondazione e straripamenti del 1966, bufera di vento di fine ottobre 2018. Sull’edizione 1883 dell’Almanacco Agrario troviamo pubblicate ben sei pagine di cronaca dell’inondazione dell’anno precedente più una pagina prospettica dei danni arrecati dall’evento che si è svolto in due momenti diversi della stessa annata: dal 16 al 20 settembre e dal 27 al 28 ottobre. Il danno totale delle due inondazioni in ambedue le parti, italiana e tedesca,della provincia tirolese ammonta a 19 milioni di fiorini. Le conseguenze disastrose dell’inondazione del 1882 alla quale ha fatto seguito una seconda nel 1885, hanno indotto il Governo austroungarico di Vienna ad istituire il Consiglio provinciale d’agricoltura con i suoi Consorzi agrari distrettuali. Esso pose mano ad una serie di provvedimenti immediati e di lungo periodo mirati a rifondere i danni con adeguati sussidi e ad avviare la costruzione di opere e di strutture di riassestamento del territorio e regimazione dei corsi d’acqua.

Dell’alluvione del 4-5 novembre 1966 si parla nell’edizione 1967 dell’Almanacco Agrario. La mattina del 3 novembre, dopo qualche giornata di bel tempo, incomincia a cadere una pioggia insistente, mentre nevica sino agli 800 metri. La pioggia continua anche il giorno successivo, tuttavia l’Adige al ponte di Zambana rimane 35 cm. al di sotto del livello raggiunto nella piena dell’agosto. In questo giorno la temperatura aumenta e la pioggia cade sulla neve fino oltre i 2000 m. L’Avisio assume proporzioni mai registrate e scarica nell’Adige la sua imponente massa d’acqua. Gli argini cedono a Roncafort e Campotrentino e l’acqua inonda la campagna circostante nonché circa un sesto della città di Trento, dove il livello supera di 60 cm. circa quello raggiunto nella famosa piena del 1882. Non è la sola zona di Trento ad essere colpita, ma anche la Val di Fiemme, Val di Sole, Val Giudicarie e Primiero, tanto per citare le zone maggiormente disastrate.

Il vento straordinariamente impetuoso e persistente per alcune ore è la principale causa della recente catastrofe. Poteva andare peggio, se a limitare i danni non ci fossero stati in passato gli interventi correttivi della gestione sostenibile dei boschi e le strutture di protezione realizzate lungo i corsi d’acqua.

Ma siamo sicuri che non ci siano state mancanze od errori dipendenti da diversità di competenza professionale o da scelte di assecondare richieste di Comuni e ditte venendo meno ai rigidi principi della selvicoltura sostenibile?

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