Il figliol prodigo e il fratello maggiore

Gs 5,9a.10-12

Salmo 33 (34)

2Cor 5,17-21

Lc 15,1-3.11-32

Quale immagine ho di Dio? Lo penso come Padre rassicurante a cui preme che io rispetti le regole o che sappia prima di tutto fare scelte che esprimono amore anche fuori degli schemi tradizionali?

La parabola del figliol prodigo, o forse meglio del Padre buono, è probabilmente la più conosciuta del Vangelo di Luca. E la più sconvolgente. Non è la figura del figlio più giovane che mi scandalizza, perché in lui vedo riflessa la nostra società. «Dammi la parte di eredità che mi spetta»: reclamandola sta chiedendo in qualche modo la morte di suo padre. Vuole essere libero, rompere i legami. Non può essere felice fino a quando il padre non scomparirà. E il padre acconsente al suo desiderio senza fiatare: il figlio può scegliere liberamente la sua vita! Non succede così anche in questo nostro tempo? Molti vogliono essere felici senza Dio, senza la presenza di un Padre al loro orizzonte. Dio deve scomparire dalla società e dalle coscienze. E, come nella parabola, Egli resta in silenzio, non costringe nessuno. L’esperienza di questo figlio è fallimentare, caotica. E la sua avventura si trasforma in dramma; solo allora comincia a ripensare al Padre che non lo ha mai abbandonato, lo ha accompagnato con il suo amore, aspettandolo ogni ora del giorno. Questa è la storia di tanti uomini e tante donne che incontriamo sulle nostre strade. Sembrano stanchi di Dio, forse lo rifiutano o restano indifferenti. C’è anche chi non cerca all’apparenza la strada del ritorno. Ma sono molti coloro che sentono un vuoto interiore e una fame d’amore che li spinge a cercare. Alla fine della strada c’è il Padre che, appena li vede corre loro incontro, li abbraccia e comincia a far festa.

Proviamo ora a chiederci: che ne è del figlio maggiore? È sempre rimasto vicino al Padre, senza grilli per la testa. Quando però lo informano che suo fratello è tornata e che il Padre ha voluto far festa, si arrabbia e non vuol entrare in casa. Il Padre esce, gli va incontro, non lo rimprovera, non gli dà ordini, lo supplica di entrare alla festa dell’accoglienza di un fratello «che era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc15,32). Ma quel figlio dimostra tutto il suo risentimento. È vero che ha passato tutta la vita ad obbedire al Padre, ma non ha imparato ad amare come lui. Sa solo rivendicare i suoi diritti e denigrare il fratello. E Gesù conclude la sua parabola senza soddisfare la nostra curiosità: alla fine il figlio maggiore entra alla festa o se ne resta fuori? Immersi nella crisi religiosa della società moderna ci siamo abituati a parlare di credenti e non credenti, di praticanti e di lontani, di matrimoni benedetti dalla Chiesa e di coppie di fatto. Mentre noi continuiamo a classificare i suoi figli e le sue figlie, Dio continua ad aspettare tutti quanti, poiché egli non è solo per i buoni e per i praticanti: è padre di tutti! Il fratello maggiore è un monito per noi, che crediamo di vivere tranquilli nella casa del Padre. Cosa stiamo facendo noi, che non abbiamo abbandonato la Chiesa? Assicuriamo la nostra sopravvivenza religiosa, osservando quanto è prescritto, oppure siamo testimoni dell’amore grande di Dio per i suoi figli? Stiamo costruendo comunità aperte, che sanno comprendere, accogliere, accompagnare quelli che cercano Dio tra dubbi e interrogativi? Ci sentiamo fratelli di tutti o innalziamo muri, barriere senza mai costruire ponti? Offriamo loro amicizia o li guardiamo con diffidenza?

È commovente il Dio che Gesù racconta in questa parabola. Dovremmo saper contemplarlo a lungo, in silenzio. Dovremmo lasciare che entri nel nostro cuore e sconvolga il nostro modo di credere e di vivere. Dio è un Padre che non mantiene per sé la sua eredità, che non è ossessionato dalla moralità dei suoi figli e che, infrangendo le regole della correttezza, cerca per tutti una vita felice. Dio è un Padre che accoglie a braccia aperte quelli che vagano perduti e supplica quelli che gli sono fedeli perché accolgano tutti con amore.

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