Caleidoscopio israeliano

Ai primi di maggio sono piovuti qualche centinaio di razzi sparati dalla Striscia di Gaza sul territorio israeliano e l’esercito israeliano ha bombardato le postazioni di Hamas. Naturalmente sono i civili a subirne le conseguenze perniciose: diversi morti da entrambe le parti e numerosi feriti.

Succede di frequente in Israele, e pare che da un momento all’altro si possa precipitare in una nuova guerra, finché una tregua allenta la tensione. Ma la gente non si abitua, non è possibile abituarsi al peggio, e allora sembra aleggiare nell’aria come una calma apparente e sospesa, gravida di incognite, e basta il suono delle sirene per far tornare la paura. Arrivati a Tel Aviv a ridosso di giorni di tensione si rimane sorpresi da una sorta di commozione collettiva nel “Giorno del Ricordo dei Caduti” (i tanti soldati e civili morti nelle ripetute guerre), l’8 maggio, e nel successivo “Giorno dell’Indipendenza”, quando 71 anni fa fu fondato lo Stato di Israele. Sentimenti contrapposti perché per i palestinesi quello stesso giorno è quello della Nakba, “la catastrofe”, che nel 1948 costrinse settecentomila palestinesi a fuggire (o furono cacciati) via dalle loro case. In Israele è continua –ininterrotta, come un destino- questa visuale strabica di due popoli che faticano o proprio non riescono a convivere pacificamente sulla stessa terra.

Israele, un territorio esteso come la Lombardia, ricchissimo di storia e memoria, tradizioni millenarie, conquiste e popoli soggiogati, liberati e di nuovo sottomessi. Sempre – negli ultimi anni e decenni – quando qualcuno ha cercato di intraprendere una via della pace è stato subito boicottato o abbattuto. Come è capitato al premier laburista Rabin assassinato nel 1994 da un colono ebreo che la pace assolutamente non la voleva. Le cose si ripetono, i veti, le intransigenze trovano terreno fertile nell’odio reciproco, in un rancore sedimentato. Il premier designato a dar vita al nuovo esecutivo dopo le elezione di alcune settimane fa, Benyamin Netanyahu, formerà un governo con i piccoli partiti dell’ultradestra religiosa dichiaratamente anti-arabi (i laburisti sono praticamente irrilevanti). E molto facilmente la legge sulla nazione ebraica –che include Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele- farà sentire i suoi effetti con ulteriori restrizioni verso le comunità arabe. E con nuovi insediamenti ebraici nei territori palestinesi. E’ bastato salire sull’altura dell’Herodium –una fortezza fatta costruire da Erode- per avere una visione ampia dei territori oggi amministrati dall’Autorità palestinese, villaggi disseminati qua e là fino a Betlemme –povere case non finite, strade polverose- e tra essi spiccano gli insediamenti ebraici dei coloni, di bell’aspetto, mostrano tutt’altra fattezza, più cura (avendo maggiori disponibilità finanziarie a disposizione) circondati da muri o fili spinati e a cui si accede tramite un checkpoint. I governi israeliani hanno sempre giustificato questa “espansione” col fatto di dovere dare spazio alla popolazione soffocata da una forte urbanizzazione (anche oggi il prezzo delle case è altissimo, sia per acquisto sia per affitto, si costruisce molto in verticale con palazzi altissimi) ma in realtà si sta usurpando un diritto dei palestinesi all’integrità della propria terra.

Allo stesso modo la questione del muro alto otto metri che è stato eretto per dividere israeliani e palestinesi – tra Gerusalemme e Betlemme e Betania – trova versioni contrapposte. Per gli israeliani è stato costruito per impedire che i palestinesi venissero a Gerusalemme a mettere le bombe e far saltare gli autobus (da quando c’è il muro –dicono- non c’è stato più nessun attentato stragista); d’altro canto è palese ed evidentissimo che si tratta di un tentativo di segregazione: voi rimanete lì e arrangiatevi! E in questo caso arrangiarsi vuol significare vivere di poco, accontentarsi di piccoli commerci e di un agricoltura di sussistenza. Il movimento dei coloni che rivendicano di andare a vivere dove vivono gli arabi (attualmente ci sono 130 colonie, da piccoli agglomerati e vere e proprie cittadine) va crescendo ed è preoccupante perché si muove nel segno di un nazionalismo esacerbato e rancoroso, loro sognano la “Grande Israele” voglio cacciare via definitivamente gli arabi.

Girando Israele e i Territori palestinesi è fin troppo plastica la sproporzione che esiste. L’economia israeliana va a gonfie vele, il costo della vita risulta esorbitante per i redditi fissi, si sta creando una classe di “nuovi ricchi” disposti a spendere cifre impensabili per svaghi effimeri, un’ostentazione della ricchezza che offende.

La militarizzazione del territorio è massiccia, i ragazzi a 18 anni svolgono il servizio militare che dura 3 anni, per le giovani donne 2 anni, li si vede in giro a gruppi e appaiono imberbi e “pacifici”, le ragazze belle e sorridenti. A Tel Aviv, dove l’età media è di 25 anni –per le strade e nei bar si vedono tantissimi giovani- un quarto della popolazione si dichiara apertamente omosessuale (dicono la città più Lgbt al mondo), un quadro che contrasta aspramente con i movimenti ultraortodossi di Gerusalemme, tipo il partito di Moshe Feiglin, l’uomo che sogna di ricostruire il Terzo Tempio per la purezza del popolo d’Israele e il quartiere degli ebrei haredim, i più retrivi tra gli ultraconservatori, coi grandi cappelli neri e i riccioli alle orecchie che non si degnano di parlare alle donne. Sono decine di migliaia e stanno diventando sempre più arroganti e integralisti –con potere impensabile di interdizione- non fanno il militare e si rifiutano di pagare le imposte.

A Gerusalemme vivono circa 220mila arabi che sono residenti ma non hanno la cittadinanza e quindi non possono votare; alcuni quartieri sono off limits per chi non è di una determinata religione o addirittura a una setta di quella stessa religione. E pur tuttavia Israele è un caleidoscopio di popoli e di culture, storie e provenienze che riescono spesso a convivere tra loro, Haifa, ad esempio, è ritenuta un modello di convivenza, dove ogni etnia e religione ha le sue aree per vivere degli spazi da condividere. L’Accordo di Oslo prevedeva che fette di territorio trasferite progressivamente sotto il controllo dell’Autorità palestinese per formare il nuovo Stato, cosa che non ha mai avuto seguito.

L’impressione è che oggi nessuno o quasi parla più di due Stati che convivono adiacenti e in pace. Nella visita ad un kibbutz (collettività che mettono i beni e i guadagni in comune) un giovane della comunità si mostrava molto interessato al modello di Autonomia e di convivenza del Trentino – Alto Adige/Süd Tirol, (lo conosceva, lo aveva studiato), “potrebbe essere un esempio da esportare anche qui”, osservava. Ma, a quanto pare, si va nella direzione opposta, quella di una progressiva annessione e di un soffocamento della “questione palestinese” (che non interessa ora a nessun paese arabo), i rapporti di forza essendo platealmente impari, i diritti umani vilipesi. Anche se al fondo di tutto quello che interessa alla gente è di vivere in pace, crescere i figli, dare loro un’educazione, godere un po’ di serenità, come in ogni angolo del mondo.

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