Torniamo a giocare, anche da adulti!

Finita la scuola, siamo usciti con i nostri figli dal ritmo incalzante della quotidianità; qualcuno è in vacanza, molti la stanno attendendo o progettando, c’è chi è già tornato e chi invece in ferie non riesce ad andarci sognando uno stacco che non si può permettere.

In estate ci è chiesta elasticità e iniziativa nel vivere tempi e ritmi diversi, ma ci può anche accadere di ritrovarci di improvviso sotto un ombrellone con addosso la sensazione che tutto ciò non abbia nulla a che fare con il nostro lavoro, con la nostra vita. Bello staccare, rallentare, ma dura troppo poco. Doppia alienazione, quella del lavoro e quella delle ferie.

Ci sarà un modo di fare vacanza che ci rigeneri veramente e ci aiuti a riposare sul serio per tornare volentieri a lavorare? Un’ipotesi. Che ci possa venire in aiuto il gioco? L’esperienza del gioco è atavica, simbolica, si radica in profondità non solo nella nostra memoria di figli, ma anche in quella di creature; anche gli animali giocano.

Per farla emergere basterebbe rimembrare (e aver anche occasione di raccontare a qualcuno) le emozioni vissute nei nostri giochi di infanzia.

I bambini, fin dai primi mesi di vita, imparano tutto giocando. Giocare (e qui non si parla d’azzardo, tutt’altro che gioco!) è la modalità più piacevole per crescere nella capacità di rispettare regole, ruoli, affrontare situazioni che ci preparano alla vita. Poi un giorno, affacciandoci al mondo adulto, d’improvviso smettiamo di giocare.

Tra le tante suggestioni che il tema può offrire, mi soffermo su un significato che può apparire marginale; lo estrapolo da un saggio di Paola Manuzzi, Pedagogia del gioco e dell’animazione. L’autrice evoca l’esperienza di una vite che fa gioco rispetto al suo bullone. Si crea quel minimo spazio che impedisce che tutto funzioni, si incastri, e che destabilizza. Scrive Manuzzi: “

…] il fatto che ci siano gli interstizi tra le cose, tra gli incastri, tra le parti della nostra vita e il fatto che non li colmiamo, ma li lasciamo essere per un po’, ci consente l’invenzione, l’avventura, l’irrompere del nuovo, cioè il gioco della vita.[…

Forse anche per questo la nostra società è così mortifera: con questa ostinazione che incastra ogni pezzo del gioco, abbiamo perso lo spazio del possibile e in fondo lo spazio della relazione tra i soggetti e di questi con le cose. Stiamo ahimè perdendo lo spazio dell’esperienza, per accontentarci dell’efficienza”.

Il gioco come interstizio, spazio di tempo che si lascia destabilizzare da qualche cosa di sconosciuto che accade a patto che tu “stia al gioco”.

Può accadere durante le partite a carte con i nonni, giocando con le parole, con la musica, con il corpo e la natura, con chi non vediamo da tempo. Giocare, in qualsiasi modo, anche tra amanti, aiuta a decentrarsi, a capire che anche la vita in fondo è un grande gioco, un lungo interstizio. Il tempo del gioco, apparentemente inutile, è un tempo nel quale accadono cose nuove sotto nuove forme. Impariamo chi siamo. Papa Francesco racconta che, confessando i papà, chiede loro se giocano con i loro figli. Tanti valori, passano anche di lì.

Anche Dio, il Creatore, come poeticamente narra il capitolo ottavo del libro dei Proverbi, lasciava che la Sapienza giocasse intanto che lavorava alla sua opera. Così racconta di sé la Sapienza: “Quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo”.

Nella prospettiva biblica l’homo faber e l’homo ludens abitano la stessa casa. L’esperienza del gioco ci può regalare, in questa estate che ci attende, la leggerezza, virtù rara, frutto dello Spirito Creatore. La leggerezza non ha nulla da spartire con la superficialità, ha le sue radici nelle profondità del mistero di Dio, ci fa desiderare il cielo e ci permette di essere gioiosamente seri con la vita, d’estate come d’inverno.

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