Il regionalismo rialza la voce

Oggi sono la Lombardia, il Veneto e l’Emilia-Romagna a chiedere a gran voce autonomia, non senza reazioni contrarie in nome dell’unità del Paese

Il tema delle autonomie regionali torna ad infiammarsi. Non è una novità, ma una delle tormentate tappe del regionalismo in Italia, cioè di un modello consolidato, in continuo divenire. Va ricordato che la nascita delle regioni a statuto speciale risale al 1948 (salvo il Friuli-Venezia Giulia, 1963) mentre per le regioni ordinarie, contro cui non sono mai mancate forti resistenze centraliste, si dovette attendere il 1970.

Oggi, le venti regioni sono enti autonomi, citati dalla Costituzione, dopo i comuni e le province (per il principio di sussidiarietà) quali elementi costitutivi della Repubblica. E tutte le venti regioni emanano leggi, una potestà che appartiene soltanto ad esse, allo Stato e alle due provincie di Trento e di Bolzano. Le regioni a statuto speciale si distinguono perché legiferano in una più ampia gamma di materie, tant’è che i loro statuti sono adottati con legge costituzionale. Una distinzione netta fino al 2001, quando invece un’ampia riscrittura della seconda parte della Costituzione (legge cost. 3/2001) ha nettamente ampliato la potestà legislativa delle regioni ordinarie, ridimensionandone la distanza dalle speciali, che rimangono tuttavia avvantaggiate sotto il profilo delle risorse, grazie alla devoluzione di gran parte del gettito territoriale dei tributi.

La riforma del 2001, che ha visto la luce dopo lunghi tira e molla, riemersi anche ex post, dando molto lavoro alla Corte Costituzionale, resta comunque una pietra miliare, confermata il 7 ottobre 2001 dal primo referendum costituzionale della Repubblica, pur tiepidamente partecipato (34,1%). Quei 10 milioni di «sì» hanno avuto il merito di sancire in Costituzione la pari dignità delle leggi statali e regionali, ribaltando il principio di distribuzione delle competenze: all’opposto del passato, quelle riservate allo Stato sono oggi indicate in modo tassativo, mentre alla regione compete tutto il resto. Per varie materie (ancora troppe?) il legislatore regionale opera entro i principi della legislazione nazionale (competenza «concorrente»); ma per altre – novità assoluta – opera senza intromissioni dello Stato, nel solo rispetto della Costituzione e degli obblighi europei e internazionali, proprio come il Parlamento: la «competenza residuale esclusiva regionale» ha così mandato in soffitta i limiti preesistenti, specie quell’«interesse nazionale» spesso sfruttato dai governi per comprimere impropriamente la creatività dei territori. Con la riforma del 2001 le regioni ordinarie avrebbero perfino superato le speciali, se le «forme di autonomia più ampie» non si applicassero anche a queste ultime.

Il cantiere del regionalismo è tuttavia ben lungi dall’essere ultimato. Già due ulteriori tentativi di riforma sono naufragati: la «devolution» di Bossi, bocciata dal referendum del 2006, e quella del governo Renzi, bocciata il 4 dicembre 2016, che avrebbe eliminato la competenza regionale concorrente.

Oggi sono la Lombardia, il Veneto e l’Emilia-Romagna a chiedere a gran voce, non senza reazioni contrarie in nome dell’unità del Paese, quelle «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» prefigurate dalla stessa legge cost. 3/2011 (e criticate per le possibili fratture fra territori).

Il regionalismo è dunque una realtà dinamica, che va verso una crescente omologazione fra autonomie ordinarie e speciali, ed esige grande equilibrio, anche perché sull’evoluzione dell’ordinamento incombe il convitato di pietra: le risorse. Ne riparleremo.

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