Padre Reinisch, testimoni della coscienza

Come pochissimi altri, il padre pallottino disse no a Hitler, pagando con la vita

“Per quanto io verifichi la mia coscienza, non riesco a giungere ad altra conclusione. E contro la mia coscienza non posso e non voglio agire, con la Grazia di Dio. Come cristiano e come austriaco non potrei mai prestare il giuramento di fedeltà a un uomo come Hitler”. Sono parole pronunciate nel 1942 dal padre pallottino Franz Reinisch.

La fase diocesana del suo processo di beatificazione, durata sei anni, si è da poco conclusa. Ne ha dato notizia il vescovo di Treviri, Stephan Ackermann, titolare della diocesi dove il martire morì il 21 agosto del 1942. Si tratta di un testimone della coscienza che ricorda da vicino altre (poche) persone coraggiose che riconobbero, nei tempi bui del nazionalsocialismo, il dovere di dare testimonianza, tra questi il bolzanino Josef Mayr-Nusser. Probabilmente Josef conosceva la vicenda di p. Reinisch che lo precedette, nel martirio, di due anni e mezzo.

Franz Reinisch, nato presso Feldkirch nel 1903, ebbe un legame particolare con Bressanone (alla cui diocesi il Vorarlberg un tempo apparteneva) e con l’Alto Adige. La sua famiglia (il padre era impiegato imperialregio) visse anche a Brunico e a Bolzano e lui stesso frequentò il seminario maggiore della città vescovile dal 1925 al 1928. “Bressanone fu un tempo magnifico”, scrisse nel suo diario.

P. Reinisch riconobbe subito, già dal 1933, l’incompatibilità tra la fede cristiana e l’ideologia e la pratica nazionalsocialista. Fu molto critico rispetto all’annessione dell’Austria nel 1938, considerata da lui un atto ingiustificato di forza, e denunciò apertamente le azioni del regime contro la vita umana, come nel caso della soppressione di persone affette da malattie psichiche. Per questo nel 1940 la Gestapo gli impose il divieto di predicare.

Già nel 1939 aveva affermato durante un colloquio: “Il giuramento, il giuramento militare sulla bandiera nazionalsocialista, sul Führer, non lo si può prestare. È un atto peccaminoso. In questo modo si darebbe il giuramento a un criminale”. La scelta se giurare o meno si sarebbe presentata in modo drammaticamente concreto di lì a pochi anni. Nell’aprile 1942 p. Reinisch, fu richiamato nelle file della Wehrmacht. Il religioso pallottino non ebbe alcun dubbio. Si presentò di proposito alla caserma di Bad Kissingen con un giorno di ritardo (il 15 anziché il 14 aprile) e dichiarò subito di non essere disposto a giurare fedeltà al dittatore.

“Io non penso, non parlo e non agisco solo perché anche gli altri pensano, parlano, agiscono così, lo faccio perché è una mia intima convinzione”, disse. E ancora: “Bisogna che ci siano persone che protestino contro l’abuso dell’autorità; e io mi sento chiamato a questa protesta”.

Sapeva bene ciò che l’attendeva. Fu condotto davanti al tribunale di guerra, incarcerato a Berlino-Tegel, poi a Brandenburgo dove il 20 agosto gli fu comunicata la sentenza: morte per decapitazione. Il pubblico ministero, nell’annunciare il verdetto, disse: “Il condannato non è un rivoluzionario, cioè un nemico dello stato e del popolo che combatte col pugno e la violenza; è un prete cattolico che adopera le armi dello spirito e della fede. E sa per cosa combatte”.

Il 4 luglio aveva annotato queste parole nel suo diario: “L’amore perfetto annulla la paura! Perché Dio è amore e non si fa superare in generosità. Invia tanta sofferenza, quanta si è in grado di sopportare al momento. Attraverso ciò crescono la fede, la pazienza e il coraggio di accettare e portare a termine compiti ancora più grandi”.

“Dare testimonianza”, aveva scritto Josef Mayr-Nusser qualche anno prima, “è oggi la nostra unica arma, la più efficace”.

Il mondo, in ogni epoca, ha bisogno di testimoni.

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