“Non dimentichiamo”

Il campanile è nel territorio della Federazione. Il resto della chiesa cattolica di Stara Rijeka è invece in quello della Repubblica Srpska. Il torrente è il confine tra le due maggiori entità politico-amministrative della Bosnia Erzegovina, la prima a maggioranza croata e musulmana, la seconda a predominanza serba. Se si vuole capire qualcosa dei danni provocati dagli accordi di Dayton che posero fine alla guerra di Bosnia nel 1995 questo è l’esempio perfetto, ma altri ce ne sarebbero, del congelamento di una situazione che a quasi 25 anni dalla conclusione del conflitto divide ciò che prima era unito sotto l’ombrello della Repubblica socialista federale di Jugoslavia. Accordi che hanno fotografato la situazione sul terreno causata dai combattimenti, esacerbato le differenze, dato la stura alle divisioni etniche che prima non c’erano.

Qui a Stara Rijeka, frazione di Prijedor (città nel nord del Paese), i serbi ammazzarono un centinaio tra uomini e donne. Erano i primi anni Novanta. In precedenza, in questo villaggio di case sparse vivevano in 600, ora gli abitanti sono una settantina. Tanti sono scappati all’estero.

La strada che scende a valle è uno sterrato pieno di buche. Nessuno interviene. E’ terra di nessuno. Raccontano che i serbi cannoneggiassero le case non prima di averle spogliate di ogni bene che poi rivendevano al mercato. Riferiscono che nei laghetti di decantazione della sovrastante miniera di ferro a cielo aperto, ora dismessa ma acquisita dalla ArcelorMittal (la stessa dell’Ilva di Taranto), i camion scaricavano i corpi martoriati.

“Ci sentiamo abbandonati dallo Stato”, afferma il parroco, don Boris Ljevak, direttore del Centro scolastico di Bihac, che a Stara Rijeka arriva il fine settimana per incontrare i fedeli e dire messa. “Essere parroco in questo posto è molto difficile”, aggiunge. In questo villaggio di contadini, fin dai primi anni Novanta operano i volontari del Gruppo Bosnia Mori, che non ha mai chiesto contributi pubblici e si autofinanzia. Microprogetti concreti. Garantisce il trasporto a scuola con un pulmino agli studenti che altrimenti dovrebbero fare chilometri a piedi, visto che il servizio pubblico non c’è. Hanno donato un paio di motocoltivatori agli agricoltori con l’intenzione di creare una rete di vendita dei prodotti attraverso una cooperativa. In città sostengono il vitto e l’alloggio a uno studente e mantengono una famiglia indigente con 9 figli.

Nei giorni scorsi una delegazione del Gruppo Bosnia Mori, con l’assessore alla cultura del Comune moriano Filippo Mura, era a Prijedor. A Brisevo, in collina, villaggio che fa parte della municipalità, ha partecipato alla commemorazione della strage del 25 luglio 1992 (seguita anche dal sito Obc Transeuropa). Nelle case tra i boschi, di cui ora rimangono poche tracce inghiottite dalle felci, convivevano in 370, tra croati e musulmani. Adesso sono rimasti in 4. Sessantotto sono stati massacrati. Una strage dimenticata in questo angolo di Bosnia. Tanti sono scappati all’estero.

Mura ha incontrato il vescovo di Banja Luka, Franjo Komarica, che ha officiato la celebrazione religiosa e la ministra della difesa della Bosnia Erzegovina Marina Pendes. “Vogliamo proseguire a camminare insieme a voi – ha detto –. Siamo parte della vostra comunità e ci ispirano i valori della cooperazione e dell’aiuto fraterno affinché un futuro migliore sia possibile”.

Mirsad Svraka e Luka Mlinar erano amici, l’uno cattolico, l’altro musulmano. Avevano 16 anni. Una granata li ha fatti a pezzi. Più in là, un’altra targa ricorda l’uccisione di una madre e di suo figlio. Nei boschi si raccoglievano funghi. Ora grandi camion rapinano tronchi di quercia pregiata diretti all’estero. Il bosco ha preso il sopravvento. Roveri, felci, faggi, carpini e ginepri nascondono l’indicibile.

Mirsad Duratovic è presidente dell’associazione dei detenuti dei campi di concentramento che intorno a Prijedor erano 4. Sono 3000 i tesserati, perlopiù bosgnacchi (bosniaci musulmani), ma ci sono anche 500 croati. Sono 489 le fosse comuni finora rinvenute con i resti dei cittadini di Prijedor uccisi, distribuite in 10 municipalità, fin in Serbia e Croazia. “Per capire qual è la situazione – sottolinea Duratovic – basti dire che il 95% dei luoghi di culto nel territorio della municipalità è di rito ortodosso, il 3-4% islamico. A bilancio comunale sono stati messi un sacco di soldi per fare strade nei villaggi serbi. Per quelli a presenza croata e musulmana i residenti si devono finanziare al 60% i lavori”.

Da tempo l’associazione Kvart chiede la realizzazione di un monumento a ricordo dei 102 bambini di Prijedor uccisi nel conflitto. Fikret Bacic, il portavoce, racconta delle difficoltà e degli intoppi a non finire. Di possibili soluzioni non ancora messe nero su bianco, di ipotesi al vaglio. Lui, mentre era in Germania a lavorare, ha perso 29 familiari, tra cui la moglie, la madre e 2 figli. Nel suo villaggio, a Zecovi, sono stati trucidati 150 musulmani. Il processo è in corso. Ma in molti, ancor oggi, preferiscono voltarsi dall’altra parte.

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