Rinunciare alla vetta per riscoprire il sacro

Ayers Rock, uno dei simboli dell’Australia

Lo spunto

“Gli ultimi scalatori di Uluru. La roccia sacra degli aborigeni australiani torna d essere proibita”. Il titolo del giornale è chiaro e il commento fornisce altri dettagli. Specifica che “da oggi (26 ottobre 2019) è vietato salire su uno dei simboli dell’Australia.” Sottolinea anche “la gioia del popolo Anangu”. Minia JeanUluru-Reid, è una donna con i capelli grigi: “Quando ero bambina ci venivo con i miei genitori – ricorda al SidneyMorning Herald – e non c’era nessuno. Questa è la nostra casa, la nostra memoria. Sono contenta ch adesso non salirà più nessuno.” Uluru, nella lingua degli aborigeni vuol dire più o meno Grande Sassolino. E’ una cima sacra, uno scoglio rosso che placidamente svetta 345 metri sopra il livello del deserto. I bianchi lo chiamano Ayers Rock, in onore di un certo politico. Per il popolo Anangu, che ci vive intorno, il sentiero verso la sommità è qualcosa che precede il tempo. E’ il “cammino della creazione”. Per i tanti turisti che lo salgono, è invece un ricordo, legittimo, da serbare nella memoria del telefonino. Negli ultimi anni chi ha salito la roccia l’ha fatto senza curarsi di un cartello posto dagli indigeni alla sua base:“Si prega di non salire”, Ora dopo 35 anni che i politici australiani promettevano di rendere legge quell’invito “finalmente” è arrivato il giorno della chiusura permanente, con decreto formale.

Michele FarinaCorriere della Sera, 26 ottobre 2019

Non ci sono solo gli indigeni dell’Amazzonia – da salvare e da cui imparare – ci sono anche gli aborigeni dell’Australia. Non perché siano “buoni selvaggi” innocenti o migliori, ma perché a differenza della deriva materialista, tecnologica e monetarista che negli ultimi secoli ha preso in ostaggio la cultura occidentale (nata nella “polis” greca e sulla croce cristiana, in una dimensione di comunità e di libertà per gli schiavi che alla croce venivano appesi, ma che ora pare rinchiusa in una gabbia virtuale, autoreferenziale) hanno mantenuto la saggezza di una visione di sacralità sulla natura e sulla vita. Sanno ancora riflettere sul mistero immenso di una creazione che dalla finitezza del tempo porta il mondo (i mondi) ad una dimensione assoluta di eternità . Il sentiero che sale alla roccia come “cammino della creazione” … Avevano ben capito, gli aborigeni di Uluru, come un cammino attraverso il tempo porta dal presente all’infinito.

Al di là del sinodo, della fede o dell’antropologia, val quindi la pena, per tutta una cultura secolarizzata, fermarsi a riflettere sul “cammino della creazione” che gli aborigeni vedono in quella loro roccia rossa in mezzo al deserto e che i turisti riducono invece a fondale da “selfie”. Eppure chi ha vissuto – e vive ancora – i momenti di silenzio della montagna, rifiutando l’ “overtourism” in cui sono cadute prigioniere troppe comunità alpine, anche del Trentino, capisce i sentimenti delle antiche popolazioni australiane e le parole di Mina Reidle. Chi percorre lentamente, magari con fatica, un sentiero che sale nel bosco, avverte non solo la bellezza, ma la sacralità della natura che attraversa e lo abbraccia, come chi pone umilmente le mani sulla roccia “sente” come salire non sia conquista, ma la misura di un “altro” tempo, e di un “altro” spazio”. E sa imparare dove fermarsi. La verticalità, infatti, dà un altro tempo alle esperienze, costituisce uno stacco dal quotidiano confuso, dà una misura di spazio al nulla, lo inserisce nel ritmo della creazione. Gli aborigeni (“il sentiero della creazione”) non l’hanno dimenticato.

Molti segni avvertono che il mondo occidentale, con la cultura che lo sorregge, è ad una svolta, forse alla vigilia di una grande rivoluzione, mentre i segni che vengono dalle antiche culture e popolazioni (Amazzonia, Australia …) minacciate di essere distrutte, con i loro valori, dalla speculazione monetaria e finanziaria, se non soluzioni offrono però segnavia per possibili strade da seguire. E fra queste il rispetto della vita e delle cose create, il senso del limite, il saper dove fermarsi , fisicamente e psicologicamente. Per questo è forse giunto il tempo di sostituire la secolarizzazione con una nuova sacralizzazione della vita. Questo ci dicono le popolazioni del monte Uluru , conosciuto come Ayers Rock. Ed è un discorso che riguarda anche la montagna trentina, violentata da Vaja, ma anche da chi la umilia a stadio, a frastuono di massa, a rimessaggio d’auto che in nessuna capitale mondiale verrebbero tollerato. E’ una montagna che tocca agli uomini riscattare. La montagna non può essere solo “business”, stadio o “spot”. E’ un segnavia antico verso il futuro, come ci indicano gli aborigeni. Le leggi di un paese non certo arretrato (!) come l’Australia hanno recepito questa dimensione, questa esigenza. E il Trentino, con tutta la sua “autonomia” non vorrà nemmeno avvertirla?

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