La partita entra nel vivo

Il discorso di martedì 16 settembre alle Camere è stato per Renzi il modo per avviare quella che si potrebbe definire la sua campagna d’autunno. Consapevole di un successo di opinione ancora forte, ma che tende a ridursi, il premier ha scelto di rilanciare con il suo stile tipico: giocare d’attacco, buttare la palla nel campo avversario.

Del resto gli è difficile abbandonare la via che ha scelto, anche se ha bisogno di aggiustare alcuni tiri: non solo perché le resistenze alle sue proposte di riforma non sono poche, ma anche perché si rende conto che non gli sarà facile riuscire davvero a concretizzare in tempi ragionevoli il cambiamento per cui ha preso degli impegni. Dunque ha bisogno di una strategia preventiva che spieghi ai cittadini il perché del successo piuttosto parziale che molte riforme rischiano di avere, e questa è l’annuncio che ci sono troppi interessati a mettere i bastoni fra le ruote del progresso. Qui non si va per il sottile: dai magistrati ai sindacati, dalla burocrazia ai non meglio identificati “rosiconi”, tutto fa brodo come capro espiatorio.

Renzi però si sta probabilmente rendendo conto che smontare le inefficienze del sistema italiano ha dei costi a cui non si sa come far fronte: quando una casa è pericolante va benissimo sgombrarla per buttarla giù e ricostruirla, ma intanto chi la abitava rischia di dormire all’addiaccio. Ci si perdoni la metafora, forse non proprio brillante, ma è così: tagliare gli sprechi significa anche lasciar sguarniti settori che comunque danno un reddito per quanto ingiusto a tanta gente, mentre con la crisi odierna ricollocare quelle persone non è certo facile.

Tuttavia il premier è con le spalle al muro, perché se non realizza le riforme, l’Italia sarà lasciata da sola a confrontarsi col suo declino. Quando Renzi afferma che non si sta giocando la partita del futuro del suo governo, ma quella del futuro dell’Italia ha perfettamente ragione, solo che deve trovare il modo di tirarsi dietro un paese che da un lato invoca riforme a più non posso e che dall’altro è restio ad accettare il rischio di cambiamento radicale che queste comportano.

Il bastione di queste paure è, anche se non lo si vuole ammettere, il parlamento. La prima spiegazione del fenomeno è che i deputati non si sentono affatto tranquilli circa il loro futuro e puntano sul populismo per rafforzare il loro consenso. Il premier e qualche ministro possono permettersi il lusso di usare strategie d’attacco (a volte al limite della violenza). Il parlamentare ordinario naviga nel mare del disorientamento del paese.

Ovviamente questo vale in modo particolare per l’opposizione, che non solo non può, per ovvie ragioni, gratificare Renzi di alcuna benevolenza, ma che è percorsa da una guerra interna fra il grillismo mai domo, il leghismo vecchia maniera e le incapacità di leadership di Forza Italia. Poi naturalmente ci sono i cespuglietti vari che però possono fare al massimo qualche, più o meno timida, strategia degli agguati (che comunque disturba).

La vicenda dell’elezione dei membri della Consulta mostra con evidenza la difficile governabilità delle Camere, dove le capacità di controllo dei partiti sui loro parlamentari sono ridotte (e del resto questi “ribelli” fanno giochetti di basso profilo infischiandosene del bene del paese).

Per tenere a bada questa situazione il premier-segretario prova a ricompattare il PD con una gestione unitaria, dando qualcosa a tutte le correnti (Civati si chiama fuori, ma non conta più nulla), ma con questo affrancandole dai tradizionali leader. Lo si voglia o no è il ritorno del vecchio modello di partito della DC dalla rivolta dorotea in poi. Se garantirà al PD altrettanta longevità del partito-asse della prima repubblica lo vedremo, così come vedremo se non comporterà invece, come allora, un pesante ridimensionamento dell’attuale leader.

Al momento Renzi è forte per la mancanza di una qualsiasi alternativa credibile. Per quanto lo neghi, lo tiene potentemente in piedi proprio la minaccia della UE di commissariare l’Italia se non passasse una politica di riforme che, diciamoci la verità, lui ha avuto il merito di sbloccare (almeno come tentativo) e che dopo di lui non si vede chi potrebbe prendere in mano con autorevolezza.

In fondo, e anche qui è un paradosso, il governo si giova pure di quel conflitto di interessi tanto criticato dalla sinistra: Berlusconi ha troppi interessi economici nelle sue aziende per sacrificarli alle pretese di chi nel suo partito vorrebbe una opposizione dura che metterebbe il paese in una situazione difficilissima.

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