Dopo la buriana, l’obbligo di dialogare

Come se il gelido vento Burian che ha spazzato l’Italia a fine febbraio avesse fatto mulinello anche nei seggi elettorali, il voto del 4 marzo ha mandato all’aria le previsioni dei sondaggisti, ridisegnando nella politica italiana tre poli ben distinti, ma non autosufficienti: il movimento Cinque Stelle che sfonda il 30% con Di Maio, il centrodestra in cui il guerriero Salvini disarciona Berlusconi, il renziano Partito Democratico ridimensionato non solo per lo strappo di Liberi & Uguali.

Questa buriana nazionale non ha risparmiato il Trentino, finora “isola” del centrosinistra autonomista. Ed il ricambio della nostra compagine parlamentare (guarda quasi tutta a destra, con 5 leghisti su 10 eletti), prefigura relazioni faticose, ma necessarie con Piazza Dante in vista della campagna elettorale d'autunno, già cominciata.

Come regola della vita democratica, il voto va rispettato, ma il dopo-voto deve essere interpretato. E' utile per il futuro del Paese comprendere quale matrice culturale lo ha determinato: nei ceti sociali (dove votano gli operai? E gli imprenditori?), dentro le fasce anagrafiche (cosa vogliono i giovani dai Cinque Stelle?) e soprattutto nella geografia del Bel Paese, considerato il predominio grillino nel Sud e lo strapotere leghista a Nord. L'analisi va focalizzata anche dentro le valli trentine trentine, tutt'altro che immobili, dove la protesta leghista, ad esempio, ha fatto breccia anche nella tradizione autonomista e popolare.

Cinque Stelle e Lega Nord, fin dalle prime dichiarazioni più “aperte”, rivendicano un diritto di prelazione sul governo: con la benedizione del fondatore Beppe Grillo, Luigi Di Maio cerca di accreditarsi statura e spessore politico (tanto d'aver anticipato i nomi della sua squadra al presidente Mattarella), liberandosi dal peccato d'origine della genesi virtuale e dai vizi di gestioni locali non proprio cristalline.

Con la spinta di Roberto Maroni, il leader Matteo Salvini è andato subito ad Arcore per tendere la mano al centrodestra, anestetizzando la vocazione secessionista per sfoderare una muscolatura nordista, attenta però alle forze imprenditoriali di tutto il Paese.

Passata la tempesta, su quali basi “ricucire il Paese”, come direbbe il card. Bassetti? Agli eletti, pur consapevoli dei sofferti limiti della mediazione politica, va riproposto l'obbligo morale e civile di cercare una mediazione fra interessi apparentemente opposti, non solo per garantire un governo richiesto dalle scadenze europee. Stop alla campagna elettorale, avanti con la ricerca di una convergenza attorno ad alcuni beni comuni. Davanti a sfide come la detanalità, un welfare sbilanciato, le “terre dei fuochi”, le piaghe dell'usura e dell'azzardo, la cooperazione con il Sud del mondo, non è un’impresa impossibile perseguire accordi invece di veti reciproci. Ben sapendo che il dialogo non è mai a tutti costi: vale per questioni bioetiche in cui è in gioco la dignità della persona (si pensi alla stepchild adoption), ma anche alle divisive politiche migratorie: un'accoglienza doverosa può e deve coniugarsi con un'integrazione arricchente, come conferma l'apporto insostibuile che tanti nostri fratelli immigrati (badanti, infermieri, braccianti ma non solo…) danno alla nostra sanità e alla nostra economia.

Si apre una stagione in cui credere nonostante tutto alla speranza. Il dovere di partecipare alla costruzione comune spetta ancora pure ai cattolici, chiamati a impegnarsi nell'amministrazione ma anche nella formazione all'etica politica (un'urgenza ribadita da questa rissosa campagna elettorale), portandovi il sale della competenza e anche della pacificazione. Sarà Terza Repubblica – e il presidente Mattarella vigila – se il tessuto sociale non si strappa e non s'impongono mosse populiste o autoritarie.

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