Visioni dal mondo indigeno: pensare globale nell’era dei cambiamenti climatici

>

2015, Buritizeiro, stato del Minas Gerais, regione a sud del Brasile. 

Due donne, due sorelle Tuxà, a capo del loro popolo conquistano 6000 ettari di terreni che fino a quel momento erano di proprietà dello stato brasiliano. Terre devastate dalle imponenti industrie del legname e cellulosa, dalle immense monocolture di eucalipto che si estendono a perdita d’occhio, monopolizzando il paesaggio locale. La laguna, avvelenata, è ormai priva di pesci. Uno scenario che si discosta notevolmente, da quello narrato nei canti di chi anticamente visse in quelle terre.

Una terra desolata, direbbe T.S. Eliot.  

Sedetti sulla riva, a pescare

dietro di me l’arida pianura

riuscirò finalmente a fare ordine nelle mie terre?

(Ciò che il tuono disse, T.S Eliot)

Tre anni dopo l’occupazione, questo territorio sta rifiorendo grazie alla presenza e alle cure del popolo Tuxà. Ma il conflitto non è concluso. Le fiamme del profitto e degli interessi statali brillano ancora come tizzoni pronti a divampare da un momento all’altro. Le relazioni tra governo brasiliano e le popolazioni originarie, come nel caso dei Tuxà, sono estremamente complesse e caratterizzate da una forte tensione, così come le procedure burocratiche finalizzate alla regolarizzazione e legittimazione della proprietà e uso esclusivo delle terre da parte dei popoli indigeni, che sono lente e spesso ostacolate dallo stesso governo brasiliano.  

Durante un’intervista, Analia Tuxà, la leader del popolo Tuxà nonché protagonista insieme alla sorella della riconquista dei territori a Buritizeiro, ha spiegato come all’occupazione delle terre sono seguite delle negoziazioni con il governo brasiliano, per stabilire dei termini di accordo. In tale processo il governo brasiliano aveva proposto loro di cedergli solamente il 10% delle terre da loro conquistato. 

Ovviamente i Tuxà rifiutarono. 

1992, Patagonia argentina

La nota compagnia italiana Benetton acquista dei lotti per un totale di 970.000 ettari di terra,   terreni abitati però da diverse comunità indigene di etnia Mapuche. Bastarono pochi mesi affinché l’intera popolazione fosse espulsa dai loro territori. Sradicati da quelle terre che non rappresentavano per loro semplicemente una casa, ma anche un punto di riferimento centrale per l’intero sviluppo e manifestazione della loro cultura.  

Nel 2002, Atilio Curianco e Rosa Nahuelquir occupano 385 mila ettari di quelle terre a loro confiscate. La compagnia italiana ritratta offrendo alla popolazione Mapuche l’usufrutto di 7.500, compromesso che ovviamente essi rifiutarono. Il conflitto a Santa Rosa continua fino al 2014, anno in cui il governo argentino riconosce al popolo Mapuche la proprietà e uso esclusivo di 625 mila ettari di terreni.

Nonostante questa piccola vittoria, sono però la discriminazione e l’impoverimento del suolo a rendere le condizioni di vita ardue.  

Numerosi sono i Mapuche infatti che lavorano come braccianti e manodopera a basso costo. 

Così come sono numerosi i Mapuche definiti come terroristi, nel momento in cui tentano di far valere i propri diritti e far ascoltare la propria voce. 

É ciò che accadde anche a Temuco, nella parte sud del Cile, nel 2016.

Machi Francisca, leader spirituale di una delle comunità Mapuche presenti in Cile, a causa della denuncia che lei aveva mosso nei confronti delle multinazionali e aziende che  illegalmente stavano distruggendo le foreste native araucane, tagliando legname  e praticando forme di agricoltura intensiva. 

Machi Francisca fu definita pubblicamente come una figura pericolosa sia per il governo cileno che per la popolazione civile. Ritornò a casa solo dopo numerosi mesi, dopo  un lungo sciopero della fame, le pressioni da parte di numerosi cittadini cileni, e soprattutto per le sue gravi condizioni di salute. 

In quest’era dove continuamente si parla di libertà, realizzazione e determinazione di chi siamo e come ritrovare il nostro vero sé, tali episodi non sono giustificabili.  Come occidentali esigiamo di essere liberi di agire, di auto determinarci. Ma ci risulta difficile  accettare ciò che percepiamo come culturalmente distante. Così come però ci risulta estremamente facile utilizzare il pretesto di un mercato liberale e libero per imporre in maniera poco trasparente la decisione di poche persone sulla realtà di migliaia di persone, la cui visione del mondo sarebbe totalmente differente. 

Ed è discutibile quanto spesso denaro, potere e corruzione siano i mezzi occupati per raggiungere tale scopo. 

Le tre storie citate non rappresentano singolarità, ma la realtà  di innumerevoli popoli originari, che lottano quotidianamente contro abusi, discriminazioni e il rischio di essere di nuovo espulsi dalle proprie terre ancora una volta. 

Ma vi è anche del positivo, fortunatamente numerosi gruppi indigeni, soprattutto donne, negli ultimi anni hanno creato una forte e solida rete che va rafforzandosi sempre più, contrastando le grandi Corporation e i governi corrotti. 

Esse rappresentano una solida fazione che lotta per i loro diritti come indigene, ma soprattutto come donne. 

“Non possiamo esistere senza la nostra terra. Perché portandoci via la nostra terra ci viene privata anche la possibilità di elevarci spiritualmente, con le nostre piante”. 

Tuxà significa popolo delle acque

Mapuche popolo della terra

Entrambi questi popoli indigeni hanno un forte legame il loro territorio, il loro ambiente. Essi sono il loro ambiente. Nella maggior parte delle popolazioni amazzoniche sono le donne ad avere un maggiore legame con la terra, prendendosi cura di tutto ciò che è relazionato alla coltivazione e raccolta delle piante, sviluppando una profonda conoscenza del territorio, dei tempi, delle fasi della luna, delle stagioni. Un patrimonio culturale non scritto, spesso trasmesso di generazione in generazione. 

Ma la situazione è sempre più critica. Oltre alla problematica dell’espropriazione delle terre, infatti, soprattutto gli ultimi decenni, sempre più indigeni e indigene  si trovano a essere vittime di una problematica ancora maggiore: il cambio climatico. Una creatura considerata da alcuni ancora mitologica, ma che nella realtà sta bruciando foreste, bevendosi i fiumi, e sbilanciando sempre più i già precari equilibri del nostro pianeta. E noi lo stiamo cibando, permettendogli di crescere ogni giorno di più.

Nel novembre 2018, 30 donne provenienti da diverse parti dell’Ecuador si sono riunite per discutere una strategia per affrontare i cambiamenti climatici. Hanno sottolineato le evidenti conseguenze della massiccia estrazione di oli e minerali, che ha effetti sia sul piano ambientale che anche della sicurezza e salute, e soprattutto la discriminazione presente nell’ambito agricolo ecuadoriano, in cui le donne sono fortemente presenti, ma poco considerate. Il 90% del cibo prodotto in Ecuador è infatti prodotto da donne; ma solo in 25.4% di esse fa effettivamente parte di una cooperativa che le tuteli. 

Inoltre sono numerose le donne ecuadoriane, spesso leader di movimenti che contrastano l’estrazione e il consumo di carburanti fossili, sono state vittime di molestie, violenza e in alcuni casi addirittura sono state assassinate (http://www.accionecologica.org).

Ma le donne indigene del Brasile, del Cile, del Perù, Ecuador o Colombia, così come quelle che combattono in Africa o Asia, non stanno lottando semplicemente per le loro terre o il loro popolo. Combattono contro la violenza di genere. La discriminazione che ogni donna, che abiti in Europa, piuttosto che in Africa o Stati Uniti, come qualsiasi altro paese del mondo, è giornalmente costretta a subire. Lottano contro i cambiamenti climatici, polmone verde del mondo. 

Quando si è prigionieri di una realtà è difficile vedere le cose con chiarezza. È come quando si tenta di mettere a fuoco qualcosa che è troppo vicino ai nostri occhi. É ciò che sta accadendo nel mondo occidentale. Abbiamo perso la capacità di vedere. Pensiamo che globalizzazione significhi la possibilità di mangiare del sushi in qualsiasi luogo del mondo, o poter comprare le scarpe della nostra marca preferita a Milano come a Lima. Ma questa è la parte più oscura, più viscida della globalizzazione. La parte più meravigliosa di vivere in questo mondo interconnesso e comunicante è che abbiamo la possibilità di “pensare globale”, la possibilità di sviluppare la consapevolezza di della terra come ecosistema, in cui ogni nostra azione ha un peso, positivo o negativo che sia.                                  

I popoli indigeni ci vedono dall’esterno, come pesci in un grande acquario. Sono coscienti di quello che stiamo facendo e di quello che sta succedendo a livello ambientale, perché hanno modo di vivere e osservare gli effetti di questo cambio. Perché essi vivono l’ambiente. La maggior parte delle popolazioni occidentali vive infatti nelle città, nelle grandi metropoli in cui perfino l’alternarsi delle stagioni è velato, e scandito più dai negozi di abbigliamento che quelli alimentari. Abbiamo la possibilità di comprare qualsiasi cosa in qualsiasi stagione. È ovvio che i cambiamenti climatici ci sembrino così lontani e distanti. Ci siamo chiusi nelle nostre città coltivando il nostro cibo in cubi di vetro. Vogliamo tutto e subito, perdendo il piacere dell’attesa. Ma forse è proprio il piacere dell’attesa, del seguire il ritmo della natura, del sentirci nel mondo e parte di esso che dovremmo apprendere dai popoli originari e dai loro canti. Poiché, al momento, stiamo ballando da decenni fuori tempo, come ballerini di hip hop su un valzer viennese. 

Roberta Pisani

vitaTrentina

Lascia una recensione

avatar
  Subscribe  
Notificami
vitaTrentina

I nostri eventi

vitaTrentina