Ma sì, incartiamolo allora questo Palazzo delle Albere

ll problema della destinazione della sede dell’arte trentina è sempre d’attualità ma non può essere ridotto ad una baruffa tra Sgarbi e Zecchi

Lo spunto

E se alla fine l’unico in grado di risollevare le sorti di Palazzo delle Albere fosse Christo? Nessun errore di scrittura, la ”h” deve restare, perché qui non si parla del Messia, ma dell’artista Christo Yavachev, famoso a livello mondiale per aver “impacchettato” di plastica e cellophan (assieme alla moglie Jeanne-Claude Denat de Guillebon) alcune fra le maggiori opere monumentali (palazzi, ponti …) al mondo. Fra queste il Reichstag di Berlino. A margine della mostra ”Artisti a Statuto Speciale”, che si è conclusa proprio alle Albere, con opere di 20 artisti provenienti dalle cinque regioni italiane a statuto speciale (per il Trentino Alto Adige sono stati Matteo Boato, Codroico, Meneguzzato -Lome e Antonello Serra), mi sento di lanciare questa proposta per la villa voluta in riva all’Adige dai Madruzzo nel XVI secolo.

Le Albere hanno avuto una lunga storia di splendore, poi di abbandono, infine di rilancio quando fu acquistato dalla Provincia nel 1970, restaurate e destinate a museo d’arte. Poi una vuota attesa con la costruzione del Mart a Rovereto. Ora, con l’arrivo di due personalità ”da fuori” come Sgarbi per il Mart e Zecchi per il Muse, il destino del Palazzo torna d’attualità. I due ”presidenti” se lo contendono convinti che sia stata follia non essere stati in grado di utilizzare per anni un edificio simile. Che facciamo? Diamolo a Christo perché lo impacchetti in attesa di una decisione.

Roberto Codroico

Architetto e pittore

A dire il vero il destino delle Albere – che grazie alla passione civile dell’allora assessore Guido Lorenzi e alla direttrice Gabriella Belli hanno fatto da battistrada al Mart di Botta – è sempre stato d’attualità. In primo luogo perché fu convenuto che l’arte trentina sarebbe stata esposta su due poli, a Trento e a Rovereto appunto, anche per valorizzare l’ispirazione territoriale dei diversi artisti (il futurismo e Depero, le visioni di Moggioli e Garbari…), in secondo luogo perché con il quartiere di Piano e il Muse le Albere sono diventate il perno urbanistico Ovest di Trento e bilanciano, come “porta” della città, l’altro caposaldo a Est che invece la chiude, il Buonconsiglio.

Tutto il complesso che va dall’Italcementi a via Madruzzo (area fieristica, Albere, Muse, negozi, ma anche funivia per Sardagna, Sanseverino…) va visto in un’ottica di “polo” di ingresso e servizi integrati alla città. Sono cose tutte già pensate con logicità, ma poi bloccate per gelosie e interessi, e soprattutto per incapacità di sentirsi classe dirigente da parte di chi dovrebbe decidere.

In questa visione l’ “incompiuta” delle Albere può però diventare l’occasione per completare in senso culturale l’offerta del quartiere, portando l’arte “tattile” accanto alla scienza “interattiva” (questo è il Muse) e aprendosi poi a tutta la città.

Trento, infatti, è vivibile, piace, ma presenta carenze gravi. La sua offerta d’arte si limita al Buonconsiglio e al Museo Diocesano, che svolge un’encomiabile opera di supplenza, ma non c’è un luogo, neppure una sala, dove si possa ammirare l’arte trentina dalla fine del Settecento (caduta del Principato) ad oggi. Sono due secoli di vuoto assoluto. Artisti di livello internazionale, come Moggioli, Pancheri, Garbari, Vallorz, ma anche Benvenuto Disertori, e i grandi incisori ,Wolf, la Botteri … per non parlare dei più vicini e contemporanei, è come se non esistessero. Altro che capitale della cultura.

Ecco, allora, la ritrovata funzione delle Albere (il cui nome resta legato alla stagione forse più felice delle grandi esposizioni) quella di completare la scienza con l’arte. Il palazzo madruzziano potrebbe poi essere ampliato in una proiezione di spazi, dal restauro – necessario – delle scuderie rinascimentali orami ridotte a ruderi accanto al cimitero.

Quanto al museo della filosofia potrebbe trovar posto appropriato e centrale nei locali dell’ex Santa Chiara (ex Lettere), traendoli dalla loro solitudine e da un prevedibile sottoutilizzo.

In questa prospettiva il problema delle Albere non può essere ridotto ad una baruffa fra due galli nel pollaio, Sgarbi e Zecchi, così che la brillante e provocatoria proposta dell’architetto Codroico di “incartare” l’edificio in sonno per “fare di una contesa una sorpresa” appare più che appropriata. Le opere di Christo, infatti, sono una Land Art inquietante, ma sempre significante. Avvolgono di plastica i grandi monumenti (fu così anche per il Pont Neuf di Parigi) come fossero pacchi da recapitare via Amazon, ma ne “incartano” in realtà la storia per mostrarne le potenzialità. Le tele plastiche di Christo (nato in Bulgaria nel 1935, poi apolide a Parigi) sembrano a volte un sudario di morte (anche i monumenti, tutto, anche i mausolei destinati all’immortalità sono destinati a scomparire), ma a volte invece appaiono come il sipario di un teatro che nasconde la scena ma poi si alza e si apre su nuove realtà. E’ quanto c’è da augurarsi per le Albere: incartiamole, e poi restituiamole alla città e all’arte.

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