Alpi plurali

Al progetto aderiscono una decina di realtà e istituzioni di Italia, Austria, Germania, Francia, Slovenia, Svizzera e Liechtenstein

E’ un quadro a luci e ombre quello che emerge da alcune ricerche di carattere sociologico e antropologico che si sono occupate di “inclusione sociale, economica e culturale delle popolazioni immigrate in val di Sole e in val di Non”. Tassello di un più ampio progetto internazionale, pluriennale, giunto ormai alla fase conclusiva, “PlurAlps”, al quale ha partecipato anche la Fondazione Demarchi, che ha preso in considerazione l’immigrazione nell’arco alpino.

I primi risultati sono stati presentati la settimana scorsa durante un convegno svoltosi a Trento, nella sede della Fondazione in piazza Santa Maria Maggiore. In val di Non il 9,1% della popolazione è di origine straniera, in val di Sole la percentuale è del 7,9%. Nel 2017, tra Non e Sole, il 15% delle nascite non è stata italiana.

Dal lavoro della sociologa Serena Piovesan e del collega Francesco Della Puppa, che ha preso in considerazione i settori agricolo e turistico-alberghiero, risulta che, in queste valli, gli stranieri sono ormai ben inseriti e provengono perlopiù dal nord Africa e dai Balcani. In sintesi, l’immigrazione è “stanziale, di lungo periodo, stabilizzata, dopo un primo periodo in cui gli stranieri arrivavano per i lavori stagionali”.

Dall’insieme delle interviste che i due ricercatori hanno raccolto sentendo amministratori, portatori di interessi, imprenditori e rappresentanti di diverse associazioni emerge, anche, che, negli alberghi si preferisce assumere personale straniero, rispetto a quello italiano, “perché meno schizzinoso” (a nostro avviso non è certo una considerazione di cui vantarsi). “L’assunzione di stranieri – sottolineano i ricercatori – determina spazi ampi per possibili irregolarità nel rapporto di lavoro”. A monte, “pare inoltre affermarsi il ricorso al subappalto con lavoratori gestiti da agenzie di reclutamento ed emergono, anche se non come elemento strutturale, casi di grave sfruttamento lavorativo e caporalato”.

In agricoltura c’è ormai carenza di manodopera straniera, fondamentale, fin dagli anni Novanta, per la raccolta della frutta. Erano soprattutto rumeni i lavoratori impiegati. “Adesso – riflette Serena Piovesan – molti di loro rimangono in Romania, dove le condizioni di vita sono migliorate negli ultimi anni. Magari aprono delle aziende. Oppure vanno a lavorare in Polonia o in Germania perché le condizioni lavorative sono migliori”. Non è un caso che l’Agenzia del lavoro abbia aperto la possibilità di candidarsi per questi lavori iscrivendosi ad un’apposita lista dalla quale, in seguito, le associazioni di categoria potranno scegliere a seconda delle necessità.

Osvaldo Costantini, antropologo dell’università La Sapienza di Roma, ha invece svolto una ricerca sulle comunità islamica e ortodossa per conto dell’Istituto per gli studi religiosi della Fondazione Bruno Kessler. “Sia la moschea di Cles che la chiesa ortodossa del capoluogo noneso – ha detto – rappresentano luoghi di aggregazione fondamentale delle rispettive comunità (marocchina e rumena). Anzi, in quella marocchina la religiosità è aumentata per via della presenza del luogo di culto”. E’ insomma un fattore identitario, di visibilità, legittimazione e mediazione anche nei confronti della popolazione locale.

“La chiesa ortodossa – ha infine aggiunto il ricercatore – è molto attenta al mondo del lavoro, i suoi membri più importanti sono sindacalisti. In tanti, sia nella comunità marocchina che in quella ortodossa, lavorano nella logistica, nel trasporto delle merci, parecchi sono padroncini”.

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