La mossa “disperata” di Boris Johnson

Boris Johnson

La grande sfida della Brexit, l’uscita del Regno Unito dall’UE entro fine anno, è scomparsa per alcuni mesi dal radar degli impegni comunitari. Tutti presi dalla lotta alla pandemia e di fronte all’enorme piano di rilancio dell’economia continentale con il varo del Recovery Fund, gli europei hanno parzialmente accantonato il doloroso capitolo del distacco di Londra dall’UE. Salvo poi trovarsi oggi a gestire una mossa “disperata” del premier Boris Johnson, che come al solito ha spiazzato un po’ tutti, compresi molti dei suoi compatrioti.

In breve, Johnson ha deciso di denunciare il trattato internazionale, il cosiddetto accordo di recesso, fra Londra e Bruxelles ratificato dalle due parti poco più di un anno fa. Ha in altre parole negato la possibilità per l’Irlanda del Nord di rimanere all’interno del mercato interno europeo.

Lo scopo doveva essere quello di evitare la creazione di una barriera fisica con quella del Sud; confine che tanti lutti aveva provocato nella guerra civile fra Ira repubblicana e Unionisti fedeli a Londra.

Con una legge in via di approvazione a Westminster gli inglesi decidono quindi di mantenere l’Irlanda del Nord all’interno del mercato inglese e non di quello dell’UE. Johnson con la sua proverbiale retorica populista ha tuonato contro l’UE accusandola di volere minare la sovranità e unità dell’Inghilterra.

In realtà il premier inglese teme che uno status a metà strada fra appartenenza all’UE e al Regno Unito possa riaprire le spinte autonomistiche della Scozia che, al contrario di Londra, vorrebbe continuare a fare parte dell’UE. Per un sovranista come Johnson la quasi-perdita dell’Irlanda del Nord e la minaccia di secessione di Edimburgo sarebbe insopportabile. Anche perché si aprirebbe il fronte di Gibilterra, la rocca inglese al sud della Spagna, che in questi anni ha goduto di un confine aperto con il resto della penisola iberica. Un contenzioso con Madrid sulla vecchia disputa dell’appartenenza di Gibilterra a Londra lo metterebbe in ulteriore, enorme difficoltà nel momento in cui egli tenta di tenere assieme i cocci di quella sciagurata decisione dei suoi predecessori di convocare un referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’UE. Decisione che Johnson ha tuttavia gestito con tutta l’arroganza di cui è capace e con la convinzione di potere ricattare Bruxelles nel negoziato che dovrebbe portare ad un futuro accordo commerciale.

In effetti in queste ultime settimane la delegazione inglese a Bruxelles non ha fatto altro che alzare l’asticella delle richieste su due dossier chiave: quello relativo al diritto di pesca europeo nella sua piattaforma continentale e quello sulle regole europee da rispettare nel commercio bilaterale, cioè il divieto di aiuti di Stato e l’uso di standard comuni per le merci. A Bruxelles si spera ancora in positivo, ma ci si aspetta il peggio: l’uscita traumatica di Londra con il conseguente ritorno a dazi e a pratiche competitive senza regole. Un danno enorme per tutti, a cominciare dagli stessi inglesi, che pensavano di potere contare su una grande alternativa commerciale americana, resa tuttavia problematica dai continui salti d’umore di Donald Trump e dai suoi atteggiamenti autoritari, come è stato il caso della rinuncia inglese al G5 cinese su pressione di Washington.

Londra non ha ancora compreso di non essere più la grande potenza del primo dopoguerra. Oggi è uno Stato europeo come molti altri, forse molto più debole di Francia e Germania. Sta infatti sperimentando sulla sua pelle la difficoltà di sganciarsi dall’UE ed è stupìta dall’unità che paradossalmente ha favorito fra i suoi 27 ex-membri. Neppure i più filoinglesi degli europei, olandesi e danesi, approvano le pretese di Londra. La Gran Bretagna appare sempre di più come un Paese isolato, privo di una rotta che ne garantisca un futuro di sviluppo economico e politico all’altezza del suo antico prestigioso passato.

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