Il mobbing come un virus in sala operatoria

Caso Pedri, arriva la replica dell’avvocato del primario Tateo, Salvatore Scuto, dopo il documento depositato in procura lo scorso 28 dicembre

Non più sospetti, ma “fatti oggettivi”. La rimozione immediata, da lunedì 12 luglio, del primario di Ginecologia e Ostetricia del Santa Chiara è già un provvedimento disciplinare. L’Azienda provinciale vuole sanare la “situazione critica” emersa dall’ascolto di 110 dipendenti. Un clima “pesante” in reparto, che ha schiacciato la ginecologa Sara Pedri, scomparsa dal 4 marzo, e che ha avvelenato i rapporti fra colleghi e anche fra dirigenti, arrivando ad allertare, purtroppo tardivamente, gli amministratori provinciali.

Questo caso di malasanità, che dopo l’allarme televisivo a “Chi l’ha visto?” continua a destare indignazione sui quotidiani gettando ombre su altri aspetti puliti della nostra gestione autonoma, impone un esame etico esigente: esso deve coinvolgere la sanità, per i suoi riflessi sulle persone in stato di fragilità, ma anche ogni ambiente di lavoro dove la carriera e il potere arrivano a calpestare la dignità umana, come ha già denunciato un mese fa Vincenzo Passerini su queste stesse pagine. “Mia sorella Sara è rimasta vittima di mobbing” ripete ora nella sua richiesta di giustizia alla magistratura la sorella Emanuela Pedri, bell’esempio di “sorellanza” (come ha evidenziato Simone Casalini sul Corriere del Trentino) e di coraggio civile.

La ricostruzione degli stati di prostrazione psicologica della giovane ginecologa scomparsa quattro mesi fa nei pressi del lago di Mostizzolo, verbalizzati anche nei diari di casa Pedri, ci confermano quanto può essere letale il mobbing (il termine inglese indica la persecuzione ricevuta da superiori o colleghi di lavoro), che si esercita in tempi dilatati e modalità subdole; è comunque un terribile virus che sa espandersi con parolacce offensive e silenzi omertosi o addirittura complici. Il mobbing contagia la sala operatoria, dove si infieriva su Sara e altre colleghe perché erano “incapaci” e “inadatte a questo mestiere” e raggiunge anche gli ambulatori dove alcuni colleghi non hanno avuto il coraggio di denunciare per timore di ritorsioni.

Ma il virus del malessere – nonostante l’impegno di tanti operatori che continuano a fare il proprio dovere, anche in quel reparto – finisce per ammorbare anche le corsie dell’ospedale, ricade nelle stanze sulle persone malate che dovrebbero essere “al centro della sanità pubblica e anche privata”, come ha ripetuto il Papa domenica dal balcone-pulpito del Policlinico Gemelli. Un paziente, già preoccupato per le diagnosi e i tempi incerti delle terapie, avverte sulla sua pelle se un operatore sanitario gli si presenta stressato da turni logoranti, o nervoso perché guardato dai colleghi con sospetto, o deluso perché costretto ad un demansionamento.

È stata la crescente aziendalizzazione della sanità ad ogni livello a imporre un sistema di budget e incentivi legati al perseguimento di performances, come si usa dire per non dire prestazioni: così si è arrivati a misurare e premiare la qualità di un reparto principalmente sui parametri dei risultati mensili o annuali, anche sulla capacità di “fare numeri” da fuori provincia. Essa invece andrebbe sempre pesata anche la qualità delle relazioni fiduciarie fra i dipendenti e verificata nell’ascolto di eventuali disagi latenti. Come avviene in altri ambienti gerarchici – si pensi agli enti pubblici o agli istituti scolastici – chi si trova al vertice deve costruire una piramide cementata nella collaborazione. Se s’insinuano le crepe della disistima, del pregiudizio e della ripicca, il reparto rischia di crollare.

Ma perché, nonostante i documenti di valutazione dei rischi e le verifiche annuali sulla salute dei dipendenti, non si sono prevenute condizioni di disagio così acuto? Compito dei dirigenti amministrativi è vigilare su questo clima umano e non valutare solo in base a criteri tecnici e di continuità (com’è apparso invece nel rinnovo del contratto al primario Tateo). E così gli amministratori provinciali – oggi come ieri – devono farsi interpellare da certe segnalazioni (un’interrogazione in Provincia aveva documentato l’emorragia di professionisti dal reparto del Santa Chiara): responsabilità del politico è anche prevenire. La parabola di Sara Pedri è un allarme che suona tristemente per tutti: per altri reparti, altre case di cura o ambienti di lavoro dove il virus del mobbing provoca vittime. Esso si alimenta di narcisismo, arrivismo e strumentalizzazione dell’altro e deve essere contrastato con il vaccino del rispetto, della comune dignità. Senso del dovere ma anche impegno etico, non solo professionale.

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