Lesbo, simbolo di un dramma planetario

Profughi afghani a Kabul. Foto Agensir

Sono in gran parte afghani. Un frammento del popolo afghano massacrato, esiliato, oppresso (solo quest’anno, in 700 mila sono stati costretti ad abbandonare le loro case).
A vederlo in tv, quel bianco villaggio di container, dove hanno portato il Papa, sembra perfino grazioso. Mancava ci mettessero i gerani alle finestre. Intanto non si sono visti gli altri grandi campi di tende dove bambini e adulti trascorrono al gelo l’inverno. Nei campi, poi, manca l’acqua corrente, ci sono pochissimi servizi, quando piove si cammina nel fango tra i container e le tende dove l’acqua entra. E non si può uscire dai recinti se non per poche ore al giorno. Il Covid ha aggravato le condizioni di chiusura e isolamento. L’organizzazione umanitaria Medici senza frontiere, insieme ad altre, da tempo denuncia la condizione dei minori in stato di grave depressione che arriva perfino al tentativo di suicidio.

In questi anni, per fortuna, alcune organizzazioni umanitarie e alcuni Paesi europei hanno creato corridoi umanitari per accogliere almeno una parte dei minori e delle loro famiglie. La Germania ha accolto più di duemila profughi di Lesbo, un centinaio la Francia. Grazie alla Comunità di Sant’Egidio, quest’anno sono arrivati in Italia da Lesbo, con i corridoi umanitari, 40 profughi il 17 maggio e 46 il 30 novembre. Minori o persone vulnerabili con le loro famiglie, quando ci sono. Accolti nelle varie regioni in collaborazione con le diocesi e senza costi per lo Stato italiano. Almeno alcune Chiese stanno facendo la loro parte, anche se tanti cristiani restano gelidi, prigionieri, pure loro, del “cinico disinteresse che con guanti di velluto condanna a morte chi sta ai margini”, come ha detto papa Francesco a Lesbo.

Viene da chiedersi: cosa ci vuole a tirar fuori da quella disumana prigione a cielo aperto quei 1500 esseri umani? Sono solo un piccolo frammento del grande dolore dei profughi. Il Papa ha ricordato che “è un problema del mondo”. Lesbo è solo il simbolo di un dramma planetario. Prodotto dalle guerre, dal traffico di armi, dagli appetiti dei potenti, dai regimi oppressivi, dalle disuguaglianze economiche, dai disastri ambientali. Nel Nord del Kenya, vicino al confine col Sud Sudan, c’è il campo di Kukuma che accoglie 200 mila profughi, e nel Sud, vicino al confine con la Somalia, c’è il campo di Dadaab che accoglie 218 mila profughi, per lo più somali fuggiti dalla guerra, dal terrorismo, dalla fame. Erano mezzo milione fino a un paio d’anni fa, e Dadaab era il più grande capo profughi del mondo. Una immensa distesa di tende e baracche, cresciuta in trent’anni di vita, dove tanti giovani sono nati e cresciuti e non sanno cosa è una vita normale. E aspettano, aspettano che qualcuno li faccia uscire da quella prigione a cielo aperto.

Ma come tornare in Somalia se la violenza e la fame continuano? Noi non abbiamo idea dell’immenso dolore dei profughi del mondo. Adesso il più grande campo profughi del mondo è in Bangladesh, a Cox’s Bazar, dove sono accolti quasi 900 mila Rohingya, minoranza musulmana, fuggiti nell’estate del 2017 dalle persecuzioni e dai massacri in Myanmar, Paese buddista. Una megalopoli di 35 campi profughi, uno vicino all’altro. I Rohingya sono i più maltrattati e i più dimenticati tra i profughi del mondo. Quanto poco ascolto trova il loro dolore.

E in Yemen? La guerra, secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite, ha fatto in quel piccolo e povero Paese 377 mila morti, più della metà per le conseguenze da essa provocate. E solo quest’anno 120 mila profughi. Tra Covid, altre pestilenze, e fame. Guerra che “consuma” le armi vendute ai belligeranti dai Paesi occidentali. Se poi andiamo in America centro-meridionale troviamo l’immensa tragedia dei profughi venezuelani: in sei milioni hanno lasciato il Paese ridotto alla fame dal regime. I problemi della loro accoglienza nei Paesi vicini sono, come si può immaginare, giganteschi. Tutto questo solo per ricordare alcune situazioni concrete del problema mondiale dei profughi. Solo alcune. L’isola di Lesbo è un simbolo di questo immenso dolore. Un frammento. A noi europei e italiani è chiesto solo di farci carico di un frammento del grande dolore dei profughi del mondo. Il peso di tutto questo dolore grava su altri popoli, su altri Paesi. Molto più poveri di noi.

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