Attivismo cinese nei paesi del Golfo Persico

La sede della Saudi Aramco, la compagnia nazionale saudita di idrocarburi

Ogni tanto la cronaca internazionale ci offre fatti sorprendenti, inaspettati. È successo in queste settimane allorquando è stata diffusa la notizia che la Cina sta negoziando la ripresa dei rapporti diplomatici fra Iran e Arabia Saudita. Come è noto i due paesi del Medio Oriente sono da anni nemici dichiarati per vari motivi. Il primo è che sono grandi concorrenti nella produzione di petrolio nell’area del Golfo e se possono cercano di ostacolarsi a vicenda. Ma le vere ragioni dell’inimicizia si ritrovano nella contesa ideologico-religiosa. Gli iraniani sono i capifila dei paesi sciiti, mentre l’Arabia Saudita è radicalmente sunnita. In effetti, lo scontro di religioni, come aveva previsto negli anni ’90 il politologo americano Samuel Huntigton, ha largamente caratterizzato le guerre nel mondo dopo la conclusione di quella “fredda” fra comunismo e liberalismo. Profezia drammaticamente azzeccata in Medio Oriente con numerose guerre nel corso degli ultimi decenni. Nel caso dell’Arabia Saudita la crisi si è manifestata nel conflitto in sostegno al governo Yemenita (di fede sunnita) sfidato militarmente dal gruppo minoritario sciita degli Huthi finanziati ed armati dall’Iran. I missili sparati dai ribelli Yemeniti hanno raggiunto anche gli impianti petroliferi sauditi provocando controreazioni militari da parte di Riad.

La contrapposizione Arabia Saudita- Iran sullo Yemen sembrava irrisolvibile anche perché in questi ultimi anni gli americani, grandi protettori di Riad, hanno perso influenza su quel paese a causa dei non buoni rapporti con il principe ereditario Mohammed bin Salman. Quest’ultimo era stato accusato di essere il mandante del brutale assassinio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, questione difficilmente digeribile per il presidente americano Joe Biden. Di qui l’allontanamento degli Usa dalla dirigenza saudita e più in generale dal Medio Oriente dopo il disastroso
ritiro dall’Afghanistan.

Il vuoto lasciato dagli americani viene oggi riempito dal nuovo attivismo cinese. In effetti alla sua terza rielezione il presidente cinese Xi Jinping ha lanciato un’ambiziosa
strategia di sicurezza globale rivolta soprattutto ai paesi del “Grande Sud (Global South)” del mondo. Cioè verso quei paesi che non vogliono più allinearsi con l’occidente ed in particolare con gli Stati Uniti. Questo gruppo è venuto formandosi proprio nel corso del conflitto in Ucraina allorchè, pur condannando l’aggressione russa, diversi governi hanno deciso di non sostenere le sanzioni occidentali contro Mosca. Dall’India al Sud Africa, dal Pakistan all’Etiopia si è formato un vasto fronte di paesi che ai tempi del bipolarismo Usa-Urss veniva chiamato dei non-allineati. In Medio Oriente sia l’Arabia Saudita che a maggior ragione l’Iran (che oltretutto fornisce armi a Vladimir Putin) hanno rifiutato le sanzioni e hanno in qualche modo deciso che gli affari regionali del Medio
Oriente devono da ora in poi essere risolti dai paesi dell’area.

Una specie di multipolarismo regionale che si applica per la prima volta alla regione mediorientale. Ma il fatto più interessante è che sia la Cina a subentrare in qualche modo agli Stati Uniti come sponsor di accordi diplomatici fra i paesi in conflitto. Pechino lo fa con estrema cautela poiché vuole fare avanzare l’immagine di una potenza che non ha ambizioni “imperiali”, ma che intende solo facilitare i processi di pace come dice di volere fare anche nella guerra fra Russia e Ucraina. In realtà l’ambizione di Xi Jinping ha un fortissimo risvolto economico sia nei confronti di Mosca da cui ottiene a prezzi scontatissimi il gas e il petrolio russi non più diretti ad occidente, sia dall’isolatissimo e sanzionato Iran e dalla ricca Arabia Saudita che possono essere un’ulteriore e quasi inesauribile fonte degli stessi prodotti energetici per Pechino.

Questa strategia cinese di ottimizzazione degli accordi economici non è nuova ed è stata ormai sperimentata da anni nell’Africa Subsahariana dove le imprese di Pechino operano nel campo delle infrastrutture (strade, ferrovie e porti). In compenso ricevono i permessi per lo sfruttamento delle ricchezze di quel continente. Una strategia sicuramente intelligente, ma che passa ben oltre qualsiasi valutazione di rispetto dei diritti umani e delle libertà nei paesi toccati dalla politica di Pechino. Fa davvero specie, per tornare al Medio Oriente, che si cerchi di togliere dal suo isolamento l’Iran delle grandi repressioni e delle uccisioni delle giovani e dei giovani che fanno richiesta di libertà. Ma a Pechino ciò non interessa. Anzi sembra che i migliori interlocutori per il regime assolutista cinese siano i paesi autoritari e dittatoriali con cui gli affari economici e politici sono di gran lunga più facili. In fondo è anche questo un segnale della crescente debolezza delle democrazie nel mondo, che non sanno quali politiche adottare nelle aree di crisi.

L’Unione europea in realtà avrebbe tutti gli strumenti economici per intervenire, ma non riesce a trovare la forza per agire unitariamente al di là dei propri confini neppure in regioni, Medio Oriente ed Africa, che sono realmente di vitale interesse anche per noi e non solo per la Cina. Perdere anche questa scommessa e chiudere gli occhi di fronte all’espansionismo di Pechino finirà per complicare ancora di più il nostro difficile futuro. Il che non significa passare sopra il rispetto dei diritti umani e della democrazia, ma agire unitariamente nel sostenere con maggiore convinzione le società in evoluzione in quei paesi.

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